Changeling (1980)

(The Changeling)

Regia di Peter Medak

con George C. Scott (John Russell), Trish Van Devere (Claire Norman), Melvyn Douglas (senatore Joseph Carmichael), Jean Marsh (Joanna Russell), Josh Colicos (De Witt), Voldi Way (Joseph Carmichael bambino), Barry Morse (il parapsicologo), Madeleine Thornton-Sherwood (Signora Norman), Helen Burns (Leah Harmon).

PAESE: Canada 1980
GENERE: Horror
DURATA: 107′

Qualche mese dopo aver perso moglie e figlioletta in un tragico incidente, un professore di musica si trasferisce in un’antica villa e assiste a strani fenomeni. Scoprirà che il responsabile è il fantasma di un bambino paralitico morto molti anni prima in circostante inquietanti…

Da un soggetto di Russell Hunter, che dichiarò di essersi ispirato a una vicenda che visse in prima persona, adattato da William Gray, un horror abbastanza classico sull’abusato tema delle case stregate che, al netto di qualche trovata già vista e di un ritmo non sempre irresistibile, riesce ad essere piuttosto spaventevole e coinvolgente. Merito soprattutto della pregevole regia di Medak, che fa correre la macchina da presa per le stanze della villa mostrando il punto di vista del fantasma: un effetto particolarmente inquietante, che funziona anche grazie a un ottimo sound design. Solida prova di mestiere del 52enne Scott, che recita per la terza volta accanto alla moglie Van Devere, ma si fa notare anche l’ottantenne Douglas nei panni di un anziano, potente senatore. Fotografia di Ted Voigtlander.

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Scooby-Doo! La maledizione del mostro del lago

(Scooby-Doo! Curse of the Lake Monster)

Regia di Brian Levant

con Nick Palatas (Shaggy Rogers), Robbie Amell (Fred Jones), Kate Melton (Daphne Black), Hayley Kiyoko (Velma Dinkley), Ted McGinley (Thorny Blake), Luke Youngblood (voce di Scooby-Doo).

PAESE: USA, Canada 2010
GENERE: Fantastico
DURATA: 80′

Giunti in un villaggio vacanze per trascorrere l’estate lavorando, i quattro (più Scooby) si ritrovano ad indagare su una misteriosa creatura a forma di rana che da generazioni terrorizza gli abitanti del luogo…

Secondo, inutile prequel del già dimenticabile Scooby-Doo di Raja Gosnell con Sarah-Michelle Gellar e Matthew Lillard, pensato per la TV e da noi arrivato direttamente in DVD. Film irritante e pieno di gag che non fanno ridere, dialoghi urticanti e personaggi idioti che fanno cose idiote. Interpretati peraltro da attori terrificanti (Palatas ai limiti della presentabilità) che fanno venire i nervi. Va bene che il target sono i ragazzini cartoonnetworkdipendenti, ma qui si esagera: li si tratta da stupidi. Il cagnone, ovviamente, è ricreato in digitale. Inspiegabile (e imperdonabile) partecipazione del grande Dean Cundey alla direzione della fotografia. Cameo del mitico Michael Berryman (Le colline hanno gli occhi) durante i titoli di coda.

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Scooby-Doo

(Scooby-Doo)

Regia di Raja Gosnell

con Freddie Prinze Jr. (Fred Jones), Sarah Michelle Gellar (Daphne Blake), Matthew Lillard (Shaggy), Linda Cardellini (Velma Dinkley), Rowan Atkinson (Emile Mondavarius), Isla Fisher (Mary Jane), Miguel A. Nunez (Maestro Voodoo), Steven Grieves (N’Goo Tuana), Sam Greco (Zarkos), Charles Cousins (amico di Velma).ù

PAESE: USA, Australia 2002
GENERE: Commedia
DURATA: 86′

Qualche anno dopo essersi separati, i membri della Misteri & Affini vengono invitati a trascorrere una vacanza sull’isola di Spooky Island per indagare su alcuni strani fenomeni. Scopriranno che questa volta i demoni ci sono davvero…

Primo film live-action sui personaggi creati da Hanna e Barbera, scritto da James Gunn (futuro regista di punta di Marvel e DC Comics). Il risultato è un prodotto di rara bruttezza in cui si cerca di mescolare un greve umorismo alla American Pie con le esili storielle di Shaggy e del cane Scooby, quest’ultimo creato con una terribile computer grafica e reso davvero insopportabile. Storia inesistente, effetti speciali terrificanti (ormai è chiaro che la peggiore CG della storia del cinema è quella a cavallo dei primi anni duemila), regia piattamente televisiva e una decina di personaggi stupidi che fanno cose stupide per un’ora e mezza. Decisamente troppo. Anche perchè le molte battute volgari lo rendono più adatto ai giovani adulti (che guardavano appunto American Pie) piuttosto che ai bambini che guardavano i cartoni di Scooby in TV. Inutilissimo cameo di Pamela Anderson nei panni di se stessa. Nonostante le unanimi stroncature critiche il film ha avuto un grande successo di pubblico, e infatti nel 2004 ne è uscito un seguito, se possibile anche più brutto del primo.

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Il buio nell’anima

(The Brave One)

Regia di Neil Jordan

con Jodie Foster (Erica Bain), Terrence Howard (detective Sean Mercer), Nicky Katt (detective Vitale), Naveen Andrews (David), Mary Steenburgen (Carol), Jane Adams (Nicole), Zoë Kravitz (Chloe), James Biberi (detective Pitney), Brian Delate (detective O’Connor).

PAESE: USA, Australia 2007
GENERE: Thriller
DURATA: 119′

New York. La conduttrice radiofonica e il fidanzato David vengono aggrediti in Central Park da un gruppo di balordi. Lui muore, lei si riprende ma le ferite, soprattutto psicologiche, non si rimarginano. Quasi per caso, s’improvvisa giustiziere e inizia a far fuori i cattivi. Un onesto detective della polizia che seguì il suo caso sospetta di lei…

Scritto da Roderick e Bruce A. Taylor (padre e figlio) con Cynthia Mort, un thriller metropolitano che parte bene, affrontando in maniera (apparentemente) non banale il tema della giustizia privata, ma si incarta su un finale decisamente reazionario, vero e proprio elogio alla legge del taglione che lo trasforma in una variante al femminile di mille altri revenge movie, Il giustiziere della notte su tutti. L’intera trama si plasma su eventi poco credibili (possibile che ovunque vada Erica trovi delinquenti cattivissimi che “meritano” di morire?), la regia di Jordan si autocompiace con inutili inquadrature sghembe o fuori fuoco (che dovrebbero rispecchiare la confusione della protagonista), e troppo presto il film perde la sua ambiguità e si schiera apertamente (e pericolosamente) dalla parte di chi sceglie di farsi giustizia da sè. Rimane un mistero perché la Foster, da sempre personalità liberal dello star system, abbia non solo interpretato, ma anche prodotto un film che passa un messaggio così discutibile. La sua prova è comunque l’unica nota positiva di un film sbagliato. Musiche originali di Dario Marianelli alternate a brani pop abbastanza stucchevoli.

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2002: la seconda odissea

(Silent Running)

Regia di Douglas Trumbull

con Bruce Dern (Freeman Lowell), Cliff Potts (John Keenan), Ron Rifkin (Marty Barker), Jesse Vint (Andy Wolf).

PAESE: USA 1972
GENERE: Fantascienza
DURATA: 89′

Nel futuro, sulla Terra, flora e fauna sono del tutto estinte a causa del progresso industriale e dell’urbanizzazione selvaggia. L’unica vegetazione superstite viaggia nello spazio, in gigantesche serre-cupole collegata a navi spaziali. Quando dal comando arriva l’ordine di distruggere tutto, l’astronauta e botanico Lowell non ci sta.

Esordio registico di Trumbull, già apprezzato autore di effetti visivi (vedere alla voce 2001: odissea nello spazio di Kubrick), con una storia scritta da Deric Washburn, Steven Bochco e (pare) Michael Cimino. Un piccolo, riuscito esempio di fantascienza ecologica che riflette sul mondo sempre più privo di natura che stiamo lasciando ai posteri e non disdegna qualche implicazione religiosa, con Lowell novello Adamo si prende cura di un nuovo creato. Nella parte centrale il ritmo cala vertiginosamente, ma la prima mezz’ora e gli ultimi 20′ sono notevoli. Merito anche (o soprattutto) di Dern, che in scena quasi sempre da solo riesce a tratteggiare in maniera credibile e profondamente umana il tormento di Lowell, in preda ai rimorsi per aver dovuto uccidere i propri compagni pur di fare la cosa giusto. Trumbull racconta con sguardo tenero il suo rapporto con i robottini che gestiscono la nave, gli unici amici che gli sono rimasti e che lui fortemente considera tali, a sottolineare quanto l’uomo rimanga sempre e comunque un animale sociale. I trucchi, supervisionati dal regista, non sono per ovvie ragioni di budget all’altezza di quelli di 2001, eppure anche rivisti oggi non sono niente male. Musiche di Peter Schickele, che con Diane Lampert scrive anche i due brani – Silent Runnig e Rejoice the Sun – cantati da Joan Baez, e fotografia di Charles F. Wheeler. Girato in una portaerei statunitense in disarmo. Ignobile distribuzione italiana che, per sfruttare il successo del film di Kubrick (col quale questo Silent Running non ha nulla in comune, se non la presenza di Trumbull e il fatto di appartenere al genere fantascientifico), non solo modifica l’evocativo titolo originale, bensì addirittura modifica i dialoghi originali inserendo riferimenti ad Hal 9000 e al monolito. Fortunatamente, in occasione di una riedizione home-video del 2002, è stato ridoppiato coi dialoghi corretti. Forse un po’ didattico, ma struggente e poetico.

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Fahrenheit 451

(Fahrenheit 451)

Regia di François Truffaut

con Oskar Werner (Guy Montag), Julie Christie (Linda/Clarisse), Cyril Cusack (il capitano), Anton Diffring (Fabian), Bee Duffel (la donna-libro), Jeremy Spenser (l’uomo con la mela), Anne Bell (Doris), Caroline Hunt (Helen), Gillian Lewis (annunciatrice TV), Anna Ralk (Jackie), Roma Milne (la vicina), Mark Lester (un bambino).

PAESE: Regno Unito 1966
GENERE: Fantascienza
DURATA: 112′

In un futuro non molto lontano, i libri sono considerati illegali e i pompieri sono incaricati di bruciarli. Uno dei pompieri, il mite Montag, si avvicina alla lettura per curiosità e non smette più. Osteggiato dai suoi stessi compagni, si alleerà al gruppo di ribelli degli uomini libro, che imparano i testi a memoria per continuare a trasmetterne il contenuto…

Quinto lungometraggio di Truffaut, il primo a colori e il primo non prodotto in Francia, adattamento del romanzo di Ray Bradbury Gli anni della fenice (1953, titolo originale Fahrenheit 451, ovvero la temperatura di combustione della carta). Un feroce atto d’accusa verso la televisione che addormenta le masse, sempre più disinteressate alla lettura e dunque sempre più stupide, oltre che soggiogabili a qualsiasi genere di potere oppressivo. Dimostrativo, noiosetto, narrativamente sconclusionato, ma pieno di idee e di trovate (memorabile la scena della donna che sceglie di bruciare insieme ai suoi libri), sincero nell’impegno e nel monito a non arrendersi, nemmeno di fronte a società che vietano la conoscenza perché, sostanzialmente, la cultura è sempre una forma di ribellione. Truffaut cita il suo maestro Hitchcock (nella sequenza del sogno, ma anche nell’affidare la colonna sonora a Bernard Herrmann), e gira un film lineare e tutto sommato classico, abbastanza piatto a livello di suspense ma riscattato da un finale sicuramente degno. Dopo Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville di Godard (1965), rappresenta il secondo incontro della novelle vague con la fantascienza distopica, anche se oggettivamente qui, del movimento francese, rimane poco. Ottima Christie in un doppio ruolo. Fotografia del futuro regista Nicolas Roeg. Scritto con Jean Louis Richard.

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The Holdovers – Lezioni di vita

(The Holdovers)

Regia di Alexander Payne

con Paul Giamatti (Paul Hunham), Dominic Sessa (Angus Tully), Da’Vine Joy Randolph (Mary Lamb), Carrie Preston (Lydia Crane), Brady Hepner (Teddy Kountze), Ian Dolley (Alex Ollerman), Jim Kaplan (Ye-Joon Park), Michael Provost (Jason Smith), Andrew Garman (Hardy Woodrip), Naheem Garcia (Danny), Gillian Vigman (Judy Clotfelter), Tate Donovan (Stanley Clotfelter).

PAESE: USA 2023
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 133′

Barton Academy (New England), 1970. Paul Hunham, impopolare professore di lettere classiche mal sopportato da studenti e colleghi, accetta di trascorrere le vacanze di Natale nel collegio con quattro studenti che, per ragioni diverse, sono impossibilitati a raggiungere le rispettive famiglie per le festività. Quando tre di loro riescono a tornare a casa, Paul rimane solo con il ribelle Angus Tully e con la cuoca afroamericana Mary, che ha appena perso il figlio in Vietnam. L’esperienza cambierà tutti e tre.

Da un soggetto di David Hemingson, anche sceneggiatore, una commedia agrodolce nel perfetto stile del regista che ancora una volta parla di solitudine, rimpianti, inappagamento (professionale e privato) che porta a mentire soprattutto a se stessi, potere terapeutico del viaggio, padri assenti o inadempienti, bisogno di conoscere il passato (e la Storia con S maiuscola) per capire davvero il presente. Ma è soprattutto un elogio alla dignità degli ultimi, dei tanti holdovers (letteralmente residui) di questo mondo che, pur per motivi diversi, sono o si sentono ai margini di una società che costringe alla perfezione. L’intreccio non è particolarmente originale e molte strade sono già state battute, ma i personaggi sono scritti così bene, e lo sguardo è così acuto e a tratti struggente (l’incontro con il padre di Angus) da renderlo un’opera superiore alla media, nella quale l’incontro di due solitudini (che poi in realtà sono tre) serve ancora una volta per raccontare il calore dell’incontrarsi, soprattutto se si è accomunati dallo status di perdenti. E alla fine il gesto di Paul per salvare Angus dall’accademia militare (il primo passo per finire ammazzato in Vietnam) è un gesto tanto umano quanto politico, attraverso il quale due sfigati, due holdovers appunto, si prendono la loro rivalsa verso una società che non ha mai voluto loro bene. Regia di alto livello, meravigliosa fotografia anni settanta di Eigil Bryld (che utilizza un desueto aspect ratio di 1,66:1), e una straordinaria alchimia tra il mai troppo celebrato Giamatti, che ritrova Payne quasi vent’anni dopo l’ottimo Sideways – In viaggio con Jack (2004), e l’esordiente Sessa, capace di tratteggiare in maniera credibile i tormenti del suo personaggio. Ben cinque nomination ai premi Oscar ma soltanto una statuetta, meritatissima, a Randolph come miglior attrice non protagonista. Un gioiellino, capace di far ridere (anche molto) come di commuovere.

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American Fiction

(American Fiction)

Regia di Cord Jefferson

con Jeffrey Wright (Thelonious “Monk” Ellison), Erika Alexander (Coraline), Leslie Uggams (Agnes Ellison), Sterling K. Brown (Clifford Ellison), John Ortiz (Arthur), Tracee Ellis Ross (Lisa Ellison), Myra Lucretia Taylor (Lorraine), Issa Rae (Sintara Golden), Raymond Anthony Thomas (Maynard), Adam Brody (Wiley), Keith David (Willy).

PAESE: USA 2023
GENERE: Commedia
DURATA: 117′

Tornato nella natia Boston per un seminario, il professore universitario e scrittore afroamericano Thelonious Ellison perde improvvisamente la sorella e si ritrova a dover badare alla madre, malata di alzheimer. Frustrato dal successo di una scrittrice nera che, a suo giudizio, contribuisce a spargere i più abusati stereotipi sui neri, scrive di getto e per scherzo un romanzo con quello stesso stile. Non solo l’opera, firmata con uno pseudonimo ed intitolata emblematicamente Fuck, diventa un grande successo, ma addirittura si ritrova a doverla giudicare, insieme ad altri scrittori, per un prestigioso concorso letterario, senza poter rivelare che è farina del suo sacco…

Primo lungometraggio di Jefferson, che adatta il romanzo Cancellazione di Percival Everett. Una commedia brillante e malinconica nella quale il regista, afroamericano, riflette su quanto l’arte (letteratura, cinema, teatro) contribuisca ad alimentare i pregiudizi sui neri, soprattutto nei prodotti di (american) fiction e soprattutto in quelli scritti da neri. Che alla fine, magari pur inconsapevolmente, servono esclusivamente a fare sentire assolti i bianchi. Ma è anche un apologo su una società imbruttita che snobba le grandi opere e adora sempre più la monnezza: nell’interpretare il fittizio scrittore di Fuck, Monk esagera sperando che la gente si ribelli e capisca che si tratta di uno scherzo, e invece più le spara grosse e più i pubblico gli va dietro (“più faccio lo scemo e più divento ricco”, dice ad un certo punto al suo agente). Nella seconda parte tira un po’ troppo la corda del pur ottimo spunto di partenza e scivola irrimediabilmente verso la farsa (si pensi al ruolo di Brody), ma rimane un’opera intelligente, diversa dal solito, con ottimi dialoghi e buone trovate anche a livello registico (notevole la sequenza in cui i personaggi inventati da Monk prendono vita nella sua stanza e interagiscono con lui mentre li sta scrivendo). Da vedere in lingua originale per cogliere le sfumature dello slang che utilizza il protagonista quando interpreta la parte dello scrittore di Fuck. Grandissima prova di Wright, nel suo primo ruolo da protagonista. Bella fotografia di Cristina Dunlap, ottime musiche di Laura Karpman. Cinque nomination agli Oscar ma solo una vittoria per la miglior sceneggiatura non originale. In Italia direttamente in streaming su Amazon Prime.

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Anatomia di una caduta

(Anatomie d’une chute)

Regia di Justine Triet

con Sandra Hüller (Sandra), Swann Arlaud (Vincent Renzi), Milo Machado Graner (Daniel), Antoine Reinartz (il pubblico ministero), Samuel Theis (Samuel), Jehnny Beth (Marge Berger), Saadia Bentaïeb (avvocato Nour Boudaoud), Camille Rutherford (Zoe Solidor), Anne Rotger (la presidente della corte), Sophie Fillières (Monica).

PAESE: Francia 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 152′

La scrittrice Sandra vive in un paesino di montagna col marito Samuel e il figlio di dieci anni Daniel, ipovedente in seguito ad un incidente. Quando Samuel viene trovato morto nel cortile della loro casa, caduto dall’ultimo piano, Sandra è sospettata di omicidio. Sarà Daniel, con la sua testimonianza finale, a decretare l’andamento del processo.

Scritto dalla regista con il compagno Arthur Harari, un legal-thriller anomalo che ricostruisce nei particolari una “normale” inchiesta per omicidio, soffermandosi non tanto sulla scoperta della verità quanto sui meccanismi (anche famigliari, come in questo caso) che possono portare ad una verità processuale piuttosto che ad un’altra. Viviamo, di fatto, in un mondo regolato solo ed esclusivamente dalla relatività, perché ogni descrizione della verità è sempre e comunque mediata dal punto di vista (umano, emotivo, politico) di chi la effettua, e dunque ad un certo punto dobbiamo scegliere per quale verità optare. Proprio come fa Daniel, che alla fine sceglie la propria verità, trovando persino prove a suo giudizio incontestabili. O come fa Sandra, normalmente, quando scrive i suoi romanzi. Ma è anche (o soprattutto?) un film sulla difficoltà dei rapporti di coppia, e di quanto sia difficile incasellarli dentro precisi schemi che alcune sovrastrutture richiedono, come quelli della giustizia processuale. Nel lasciare aperte moltissime domande – Sandra è un’assassina? Samuel si è suicidato? Daniel ha davvero udito il padre dire certe cose? – il film sprona al dibattito raccontando l’impossibilità di arrivare ad una verità assoluta.

Triet sceglie uno sguardo il più realistico possibile, rinunciando persino alla musica e optando per riprese dall’aspetto documentaristico; ma sottolinea che nemmeno questa scelta può garantire la scoperta della verità, denunciando di conseguenza anche i limiti del mezzo cinematografico, che a questo punto può soltanto continuare a porre domande. Film estenuante, non sempre facile, ma sicuramente interessante, molto diverso dai gialli coevi. Gigantesca prova della Hüller (se il film riesce a restare ambiguo fino alla fine il merito è soprattutto suo), ma notevole anche quella dell’esordiente Graner. Bella fotografia camaleontica di Simon Beaufils. Il titolo richiama un celebre film di Otto Preminger col quale questo Anatomia di una caduta ha parecchi elementi in comune. Palma d’oro a Cannes. La mancata candidatura agli Oscar come miglior film internazionale è invece diventata in Francia un caso politico, ma la pellicola ha comunque avuto la sua rivalsa portandosi a casa la statuetta per la miglior sceneggiatura originale (a fronte di cinque candidature totali) e facendo parlare di sè anche per la presenza, alla serata di Los Angeles, del cane Messi, interprete del cane-guida Snoop. Un punto d’arrivo niente male per un film interamente prodotto da piccole case indipendenti.

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L’ultima volta che siamo stati bambini

Regia di Claudio Bisio

con Vincenzo Sebastiani (Italo), Carlotta De Leonardis (Vanda), Alessio Di Domenticantonio (Cosimo), Lorenzo McGovern Zaini (Riccardo), Federico Cesari (Vittorio), Marianna Fontana (suor Agnese), Claudio Bisio (Anacleto Barocci), Antonello Fassari (nonno Cosimo), Fabian Grutt (sergente), Giancarlo Martini (oste), Nikolai Selikovsky (tenente tedesco).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 107′

1943. Quando in seguito al rastrellamento del ghetto di Roma l’ebreo Riccardo è mandato con la sua famiglia in Germania, i suoi tre amici Italo, figlio di un federale fascista, Cosimo, che vive col nonno da quando il padre è stato mandato al confino, e Vanda, un’orfana che vive in convento, partono a piedi, seguendo le rotaie, per andare a salvarlo. Il fratello di Italo e la suora responsabile di Vanda si mettono sulle loro tracce per riportarli a casa.

Esordio registico di Bisio, che sceglie di adattare (con Fabio Bonifacci) l’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei (2018). Le intenzioni sono buone e senza dubbio sincere, i bambini sono bravi e il messaggio condivisibile e ben esposto, ma il film è davvero troppo didascalico, poco credibile negli sviluppi, disarmonico nell’optare per uno stile leggero, a tratti farsesco, per poi finire inaspettatamente in tragedia distanziandosi dal romanzo e rifacendosi in maniera rischiosa a Il bambino con il pigiama a righe. Qualcuno ha scomodato La vita è bella o addirittura La grande guerrama in entrambi i casi l’equilibrio tra riso e pianti era molto più riuscito, anche grazie a personaggi che partivano sì dalla macchietta ma finivano per essere più veri che mai. Qui invece le caratterizzazioni sono piuttosto superficiali, le battute fiacche, e lo spunto favolistico alla Stand by me non è sostenuto da una forma adeguata. Un peccato, perché i nomi coinvolti facevano sperare in qualcosa di diverso. Pubblico e critica divisi a metà.

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