Philadelphia

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Regia di Jonathan Demme

con Tom Hanks (Andrew “Andy” Beckett), Denzel Washington (Joseph “Joe” Miller), Antonio Banderas (Miguel Alvarez), Jason Robards (Charles Wheeler), Mary Steenburgen (Belinda Conine), Joanne Woodward (Sarah Beckett), Charles Napier (Giudce Garnett), Lisa Summerour (Lisa Miller), Ron Vawter (Bob Seidman), Roger Corman (Mr. Laird).

PAESE: USA 1993
GENERE: Drammatico
DURATA: 121′

Giovane, ambizioso e rispettato avvocato di Philadelphia viene licenziato dal prestigioso studio per cui lavora con l’accusa di aver calato paurosamente il suo rendimento. Secondo lui, invece, lo hanno fatto perché hanno scoperto che è omosessuale e malato di AIDS. Nonostante il veloce avanzamento della malattia, con l’aiuto della famiglia, del suo compagno e di un grintoso avvocato nero, fa causa allo studio.

Scritto in modo impeccabile da Ron Nyswaner, uno dei più potenti, impegnati, struggenti e non convenzionali film statunitensi degli anni ’90. “Non un film sull’AIDS e su chi ne è colpito, ma sulla percezione dell’AIDS da parte di chi non ce l’ha ed è invece affetto dal virus del pregiudizio” (Mereghetti): il vero protagonista del film è l’avvocato nero che, pian piano e assieme allo spettatore, mette da parte i suoi pregiudizi sull’AIDS e sull’omosessualità e si schiera dalla parte giusta. Il suo tema latente è lo sguardo, quello dei sani verso i malati. Per trasmetterlo anche allo spettatore, Demme si inventa una regia originalissima e funzionale che arriva a rileggere il classico concetto di campo/controcampo: che qui non si prefigura nel rapporto tra chi osserva (i sani) e chi è osservato (Andy), bensì tra chi osserva e una sola parte di chi è osservato, ovvero le lesioni di Andy. Ovvero, chi lo guarda non vede più l’uomo ma vede soltanto la sua malattia. Uno sguardo carico di infondate illazioni (come che il virus possa trasmettersi col tatto), ma comune almeno fino a metà degli anni ’90 (non a caso, gli anni in cui si ebbe l’apice del contagio). Ma la regia di Demme, lineare e armonica, piena come al solito di potenti primi piani che guardano in macchina (quindi, direttamente negli occhi dello spettatore), si fa apprezzare anche per come riesce a tratteggiare la condizione di solitudine di Andy, che in tutta la parte centrale è perennemente ripreso all’opposto delle altre persone in scena (che lo allontanano anche “fisicamente”).

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Se si esclude il commovente finale, non c’è un solo stereotipo del cosiddetto cancer movie: con l’aiuto di vertiginose ellissi temporali, Demme non fa quasi vedere l’inarrestabile incedere della malattia, e nemmeno i personaggi (l’amabile famiglia) o l’estrazione sociale del protagonista (decisamente elevata) sono quelli che ci si aspetterebbe. Insomma, molto pathos ma zero miele. Da ricordare il bellissimo intro semidocumentaristico, in cui si vede la gente di Philadelphia sulle note di Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen, e la sequenza della festa in maschera. Importante dimensione geografica (Philadelphia è la città in cui nacque la costituzione e, quindi, il diritto) e musicale (oltre al Boss, si sentono Neil Young, Peter Gabriel e le ottime musiche originali di Howard Shore). Grande prova di Hanks, premiato con l’Oscar, mentre una seconda statuetta è andata alla canzone di Springsteen. Da non perdere.

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