Basta che funzioni

(Whatever Works)

Regia di Woody Allen

con Larry David (Boris Yellnikof), Evan Rachel Wood (Melody), Patricia Clarkson (Marietta), Ed Begley Jr. (John), Conleth Hill (Leo Brockman), Michael McKean (Joe), Henry Cavill (Randy James).

PAESE: USA 2009
GENERE: Commedia
DURATA: 92′

Mancato per poco il premio Nobel, il metodico, intelligentissimo, arrogante e paranoico Boris, si ritrova la vita sconvolta quando arriva nel suo appartamento newyorkese la giovane Melody, una ventenne pazzerella che ama la vita. Riuscirà s sposarla e a farla diventare come lui, ma poi le cose torneranno al loro posto per tutti.

In vista del suo settantacinquesimo compleanno, il regista e sceneggiatore più irriverente di Hollywood torna con un piccolo capolavoro di caustico umorismo che è anche la vetta indiscussa del suo cinema “post duemila”. Lo fa, paradossalmente, camminando all’indietro: torna a girare a New York, città amata e metaforico calderone dei vizi (e delle virtù) dell’umanità; torna, anni dopo La rosa purpurea del Cairo, ad omaggiare la settima arte, intesa come “visione privilegiata d’insieme”; torna al modello che aveva reso grandi film come Manhattane Io e Annie, fatto di dialoghi spumeggianti e irriverenti, lunghi piani sequenza che si muovono all’interno degli appartamenti pedinando i personaggi; torna a proporre l’irresistibile personaggio cinico e disilluso (e un pò snob) fotocopia di se stesso: non è Allen a interpretare questo Boris, ma il protagonista (il bravissimo Larry David) è soltanto un’ennesima variazione sul tema dei suoi vizi, delle sue nevrosi, del suo snobbismo intellettuale. C’è di tutto in questo film: c’è uno sguardo maturo e deluso sull’intera società americana (e, perché no, su tutta l’umanità), c’è l’amore come unico strumento per tapparsi il naso di fronte al disfacimento e alla desolazione, c’è un “basta che funzioni” che diventa metro di giudizio per capire come sono fatti gli uomini. Allen non è diventato ottimista e il titolo del film ne è la prova: nella vita si può e si deve accontentarsi, non esiste altro modo per renderla un po’ meno cattiva. Ma il regista, a differenza di molte opere del passato, rinuncia davvero a quell’aria di “verità in tasca” che forse contrassegnava i suoi vecchi personaggi, accettando a quasi 75 anni di mescolare le carte in tavola per l’ennesima volta, immettendo anche la variabile del caso (inteso come legge che governa il mondo) e – incredibile – del destino. Caldo, frizzante, divertente, pieno di fantasiose divagazioni meta- cinematografiche, parla della vita, ma parla anche del cinema, della visione di insieme che un regista (e un uomo) come Allen può affermare di possedere. La fotografia di Harris Savides è di una perfezione rara. I passi in cui il protagonista parla col pubblico sono un tratto stilistico alleniano, ma questa volta sono concepiti in modo diverso:  gli altri personaggi sentono le sue dissertazioni e lo prendono per pazzo, dimostrando che la fortuna di avere una visione d’insieme è una peculiarità dei geni, che per giunta sono quasi sempre incompresi. E Allen, seppur  non così incompreso come lui stesso sostiene, “geniale” lo è sicuramente.

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