We Want Sex

(Made in Dagenham)

Regia di Nigel Cole

con Sally Hawkins (Rita O’Grady), Bob Hoskins (Albert), Miranda Richardson (Barbara Castle), Rosamund Pike (Lisa Hopkins), Andrea Riseborough (Brenda), Daniel Mays (Eddie O’Grady), Jaime Winstone (Sandra), Kenneth Cranham (Monty Taylor), Rupert Graves (Hopkins), John Sessions (Harold Wilson), Richard Schiff (Robert Tooley), Geraldine James (Connie), Roger Lloyd Pack (George).

PAESE: Gran Bretagna 2010
GENERE: Commedia Drammatica
DURATA: 113′

Come nel 1968 Rita O’Grady, addetta alla cucitura dei sedili in una gigantesca fabbrica Ford, spronò le sue compagne a scioperare e a mettersi contro agli uomini, ai sindacati, alle alte sfere dell’industria americana e inglese, per ottenere la parità dei sessi anche in ambito lavorativo (cioè che le donne vengano pagate come gli uomini se svolgono lo stesso lavoro). Una ministra testarda riuscirà ad aiutarla nell’arduo compito.

Allegra commedia inglese tutta al femminile, Made in Dagenham rappresenta più che una piacevole sorpresa nel panorama un po’ giù di corda del cinema britannico. Tratto da una storia vera, il film diverte e commuove evitando sbavature, puntando tutto sul carisma e la combattività della sua protagonista. Pur essendo quasi un inno sviscerato al femminismo (e in una certa misura al ’68 in generale), evidenzia con piglio antropologico anche i difetti delle donne, rendendoli parte integrante di esse e quindi da difendere con tutte le forze. Pur con qualche sottolineatura di troppo, la frizzante sceneggiatura di William Ivory asseconda con garbo la bravura delle protagoniste (quasi tutte sconosciute), senza dimenticare l’ottimo Bob Hoskins nel ruolo di una sorta di padre putativo delle scioperanti. La trasparente regia di Cole non è mai fine a se stessa, e anche se si sente l’eco di un certo cinema sociale “ribelle” (specialmente quello di John Waters), il risultato è fresco ed originale. Lo zucchero ridotto al minimo lo innalza dallo stereotipo del film di genere, e lo rende una visione piacevole e aggraziata, mai volgare o semplicistica. E il messaggio scuote, fa pensare: in fin dei conti, la condizione femminile rappresentata è di poco più di quarant’anni fa. Fuori concorso al festival di Roma 2010. Improponibile e senza logica il penoso titolaccio italiano.

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