Bird

Regia di Clint Eastwood

con Forest Whitaker (Charlie “Bird” Parker), Diane Venora (Chan Parker), Michael Zelniker (Red Rodney), Samuel E. Wright (Dizzy Gillespie), Keith David (Buster Franklin), James Handy (Esteves), Anna Levine (Audrey), Michael McGuire (Brewster), Arlen Dean Snyder (Dr. Heath), Morgan Nagler (Kim), Damon Whitaker (Bird giovane).

PAESE: USA 1988
GENERE: Biografico
DURATA: 163′

Storia di Charlie “Bird” Parker (1920 – 1955), sassofonista nero di Kansas City che rivoluzionò il jazz e invento il Bebop, ma non seppe mai rinunciare alla droga e all’alcol. Morì di polmonite a soli 34 anni, e il coroner che dichiarò il decesso gli attribuì 55 anni di età.

Secondo film di Eastwood regista senza Eastwood attore (dopo Breezy, 1973), Bird può essere considerato a tutti gli effetti il suo primo film “maturo”, in cui autorialità e meccanismi hollywoodiani vanno perfettamente a braccetto. La citazione a inizio film (“Non c’è un secondo atto nelle vite degli americani”, Francis Scott Fitzgerald) svela il suo tema centrale: l’animo dell’uomo lo spinge ad auto- distruggersi perché eternamente incapace di godersi ciò che possiede. E non è forse questa la fine del sogno americano? Eastwood sceglie di raccontare la biografia di Parker senza procedere cronologicamente, bensì per associazioni di idee: solo la morte ci viene mostrata nel punto “giusto” (il finale), mentre il resto è impostato su una complicata struttura temporale che avanza e indietreggia nel tempo a seconda degli argomenti trattati. Proprio questa struttura così – solo apparentemente – “caotica” echeggia quella di un pezzo jazz, notoriamente fatto di salti, digressioni, improvvisazioni. E la vera forza della pellicola, oltre alla lodevole scelta di evitare luoghi comuni sul jazz e focolai agiografici, è proprio nella sua originalissima forma filmica. Il regista costruisce strutture filmiche concepite come vere e proprie “scatole cinesi” (si pensi al “flashback nel flashback” della bellissima sequenza della 52ma Strada) e inserisce sottili simbologie tramite “innesti” sinora sconosciuti per il suo cinema (il botticino e il piatto che volano), contando come sempre su contributi tecnici ineccepibili come la fotografia di Jack N. Green, che non teme l’oscurità (non sarebbe stato possibile, per un film così “notturno”), il montaggio di Joel Cox e le spettacolari scenografie di Edward C. Carfagno (che fece ricostruire la 52ma strada in studio). I puristi del jazz si inalberarono perché Eastwood  inserì assoli originali di Bird mixati con basi “rifatte” in studio: in realtà, ci sembra che il risultato non sia affatto negativo e che venga resa piena giustizia alla musica dell’artista. Ma le critiche non finirono lì: il regista Spike Lee affermò che Eastwood si era impadronito di una cultura che non gli apparteneva, ribadendo gli stereotipi dell’artista nero destinato al fallimento. In realtà basterebbe guardare il film per notare che non è così: Dizzy Gillespie infatti predica a Parker l’autodisciplina come arma di lotta contro i bianchi (“se ti comporti come loro ti definiscono, allora fai il loro gioco”). Forse qualcuno dovrebbe far notare al pur bravo Lee che lui stesso ha girato un film sui partigiani italiani senza saperne nulla. E il risultato è sicuramente minore rispetto a Bird. Al di là delle polemiche, è un film che resterà, caposaldo dell’opera eastwoodiana e del genere biografico in generale. Qua e là diventa poesia.

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