Il cavaliere pallido

(Pale Rider)

Regia di Clint Eastwood

con Clint Eastwood (Predicatore), Michael Moriarty (Hull Barret), Carrie Snodgress (Sara Wheeler), Chris Penn (Josh LaHood), Richard Dysart (Coy LaHood), Sydney Penny (Megan Wheeler), Richard Kiel (Club), John Russell (Sceriffo Stockburn), Doug McGrath (Spider Conwaj).

PAESE: USA 1985
GENERE: Western
DURATA: 128′

Aspra battaglia tra i miti abitanti di un villaggio di minatori, capeggiati dall’onesto Hull, e il potente affarista LaHood, interessato ai loro possedimenti e disposto ad utilizzare la violenza pur di ottenerli. Toccherà ad un pistolero misterioso mettere a posto le cose.

Terzo western di Eastwood regista, ma primo senza debiti con i Maestri del genere (Ford, Leone, Siegel), Pale Rider è un robusto apologo dell’epopea della frontiera con ben più di un pregio. L’ex pistolero senza nome inserisce nella storia quella dimensione “fantasmatica” che diventerà tratto stilistico principale del suo cinema a venire, costruendo – con più armonia rispetto a Lo straniero senza nome – un personaggio ambiguo che scavalca continuamente la linea che divide il normale dal paranormale, il concreto dall’astratto. Si pensi alla scena iniziale – uno dei pezzi migliori di tutto il cinema eastwoodiano – in cui la piccola Megan, stufa degli attacchi dei malviventi, invoca un aiuto divino: ad arrivare, fuoriuscendo quasi dall’illusione operata dal sole sul terreno, è il predicatore senza passato protagonista del film. Tutto il film ribadisce questa dimensione, dal continuo concepimento del personaggio come “oggetto di sguardo” (pochissime le sue soggettive) e non come “soggetto guardante”, alle simboliche inquadrature dello stesso sugli specchi, sui vetri, reso quasi trasparente dai materiali riflettenti. Eastwood costruisce, in questo senso, quasi due linee narrative contrapposte: quella terrena, in cui il buon Hull e il suo popolo lottano contro LaHood, e in cui sarà il primo ad uccidere il secondo; quella “ultra- terrena”, in cui il predicatore- pistolero affronta Stockburn, perfido sceriffo ingaggiato da LaHood, con cui lo cow boy “buono” ha misteriosi conti in sospeso (e infatti il duello finale sarà proprio tra i due). Al di là delle finezze cinematografiche, tutte funzionali al racconto, è nei temi un robusto western che si accoda all’umanesimo di Penn e Pechinpah, affrontando i temi secolari del potere e del sopruso ma anche suggerendo una via nuova – se possibile – al genere, una via che raggiungerà il suo culmine nel successivo Gli spietati dello stesso Eastwood. Molti criticano il regista- attore di essere innamorato della propria immagine: può essere, ma il personaggio del Predicatore è incredibilmente interessante (e conturbante), e un Eastwood non più giovane ma eccelso gli rende perfettamente giustizia proprio perché sa che effetto fa il suo grezzo volto davanti alla macchina da presa. Si può fargliene una colpa? È un film colmo di citazioni celebri, e forse questo è l’unico limite che si può rimproverargli. Ma è ipocrita chi, per questo motivo, non ne apprezza l’impeccabile confezione filmica. Liberamente ispirato al film Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (1953). Appassionante, intelligente, colmo di simbologie, a tratti persino divertente. Da applausi, come al solito, la fotografia di Bruce Surtees e il montaggio di Joel Cox. Scritto da Michael Butler e Dennis Shyrack.

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