Dylan Dog

(Dylan Dog: Dead of Night)

Regia di Kevin Munroe

con Brandon Routh (Dylan Dog), Sam Huntington (Marcus), Anita Briem (Elizabeth), Taye Diggs (Vargas), Peter Stormare (Gabriel), Kurt Angle (Wolfgang), Brian Steele (Zombie tatuato).

PAESE: USA 2011
GENERE: Horror
DURATA: 108′

New Orleans. Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo, da tempo si è ritirato dal giro del soprannaturale per fare il detective privato tra corna e mogli rabbiose. Ma la morte di un ricco importatore (o contrabbandiere?), falcidiato da un lupo mannaro, riapre un’inquietante lotta sopita da anni che vede protagonisti, oltre ai licantropi, i vampiri e gli zombi. E Dylan dovrà di nuovo impugnare le armi per salvare l’equilibrio tra bene e male.

Primo film tratto dal fumetto e da Tiziano Sclavi e dall’editore Sergio Bonelli – anche se nel 1994 il nostro Michele Soavi girò DellaMorte DellAmore, tratto da uno spin- off su carta – questo Dylan Dog all’americana appare molto come un’occasione mancata. I puristi del fumetto hanno storto il naso (e come non capirli, visto che siamo tra loro): troppi i tradimenti allo spirito e all’icona del personaggio. Dylan Dog, convinto pacifista che usa le armi solo quando strettamente necessario, nel film è un folle col pallino delle pistole e una mira incredibile, che si diletta ad uccidere a vanvera fino al risibile finale in cui scopriamo che i morti dell’intera storia sono praticamente colpa sua. Non solo: nel fumetto è gracile, soffre di vertigini e di claustrofobia (e sono queste sue imperfezioni a renderlo “umano”, quindi simpatico), mentre nel film sfoggia muscoli da wrestler, si arrampica su scale a pioli altra tre piani e resta chiuso in una cripta 2 metri per 3 senza minimamente perdere la calma. Nel fumetto, vive a Londra, nel film a New Orleans. Inoltre, “tradimento” più grave, questo Dylan è una sorta di “paciere dei mostri”, un umano che ne conosce le malefatte ma tace per garantire la pace: et voilà, personaggio rivoltato come un calzino e totale perdita di originalità di uno dei personaggi più interessanti del fumetto italiano. Quanto all’assenza di Groucho, fedele aiutante dell’investigatore e sosia logorroico – ma irresistibile – del più noto fratello Marx, bisogna dire che la colpa non è del regista bensì di una serie di problemi sorti con gli eredi del comico americano. Qualcuno si è chiesto se avesse senso portare in scena Dyd senza di lui, perchè in effetti il 50 % della riuscita delle storie è dovuto proprio alla strana accoppiata di soci. Certo il continuo riferimento ad oggetti o foto che ricordano i Marx buttati qua e là a casaccio non giovano alla nostalgia verso il personaggio.

Dopo aver letto fin qui questa recensione molti lettori ci rimprovereranno di aver analizzato il film come “fan” e non come critici cinematografici. Ci farebbe piacere se fosse davvero così: il punto è che, nemmeno a livello filmico, la pellicola vale il prezzo del biglietto. A parte il fatto che non riuscire a valorizzare su schermo una città come New Orleans è incredibilmente difficile – e il regista ci riesce benissimo, filmando esclusivamente edifici (non un paesaggio) con la complicità della dozzinale fotografia dell’incapace Geoffrey Hall – il punto è che niente o quasi funziona come dovrebbe: la sceneggiatura è imbarazzante e rasenta spesso il ridicolo, la storia è idiota, confusa, illogica, il montaggio si accoda alla moda degli horror di questi anni fatti di colpi di scena telefonati e confusioni visive, addirittura è pessimo il missaggio dell’audio (!). E la storia è spudoratamente copiata da quella del serial americano True Blood. Ma il peggio è il protagonista Routh, già criticato nei panni di Superman, uno che Dylan Dog non l’ha mai letto e che recita come un bullo di quartiere impegnato a farsi vedere dalla vicina di casa. Qualcuno dovrebbe dirgli che non è obbligatorio fare l’attore, e che forse le sue braccia muscolose rendono meglio nel campo dell’agricoltura che in quello cinematografico. Si salvano solo la scelta delle musiche non originali, l’interpretazione del simpatico Huntington, un po’ stereotipata ma comunque divertente, e quella di Stormare, bravo nel fare il verso al Brando de Il padrino nella bella trovata della società dei licantropi concepita come una cosca mafiosa. È un peccato che, in nome del Dio denaro (passando per Hollywood) si distruggano personaggi che meriterebbero una fine migliore. Unica consolazione: per una volta, sono gli americani ad aver copiato noi e, lasciatecelo dire, il risultato è penoso. Una nota che rasenta l’incredibile: il maggiolone di Dylan è nero invece che bianco (com’è nel fumetto) perchè la Disney possiede il copyright sulle Volkswagen di quel colore dopo Il maggiolino tutto matto.

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