Un mondo perfetto

(A Perfect World)

Regia di Clint Eastwood

con Kevin Costner (Butch Haynes), Clint Eastwood (Red Garnett), Laura Dern (Sally Gerber), T. J. Lowther (Philip Perry), Keith Szarabajka (Terry Pugh), Mark Voges (Larry), Bradley Whitford (Bobby Lee), Bruce McGill (Paul Sanders).

PAESE: USA 1993
GENERE: Drammatico
DURATA: 138′

1963, Texas, due settimane prima dell’omicidio Kennedy. Il misogino e maturo ranger Red Garnett, coadiuvato da un’intelligente psicologa, dà la caccia attraverso lo stato all’evaso Butch Haynes, un rapinatore che lui stesso mandò in riformatorio e che ha preso in ostaggio un bambino orfano di padre per garantirsi la fuga. Presto tra il fuggiasco e il piccolo, costretto in casa da una madre super apprensiva e “goloso” di libertà, si instaura un rapporto d’amicizia, destinato però ad interrompersi in maniera sanguinosa.

A struttura circolare – cioè costruito su un lungo flashback che solo alla fine spiega la sequenza d’apertura – A perfect world è il primo capitolo di un’ideale trilogia eastwoodiana sulla società USA e i suoi “padri assenti”, morti o deviati, che trova altre due testimonianze nei successivi Mystic River e Gran Torino. È un road- movie di formazione che fa corrispondere alla morte di Kennedy la fine del fantomatico sogno americano, riscontrabile tra l’altro in ulteriori simbolismi seminati lungo il percorso dei due fuggitivi (si pensi alla sequenza in cui si imbattono in una strada “non finita”, metafora di un sogno avviato ma mai portato a termine). Eastwood dipinge mostruosamente uno scorcio di società americana – la cameriera sgualdrina, il primo compagno di fuga di Butch, le commesse del negozio costrette a sorridere – in cui sopravvivere è sempre più complicato, in cui il bene difficilmente sconfigge il male. E filosoficamente – e laicamente – parla di una sorta di destino che dipende più dal caso che dalle scelte, più dalle circostanze che dalle azioni degli uomini. Nel finale il personaggio di Red dice “io non so niente”: sembra una banalità, ma in realtà rappresenta la resa di un uomo che per colpa di una sua scelta sbagliata – fu lui a spedire Butch in riformatorio per redimerlo, ma questi diventò invece un criminale di professione – ha modificato le vite di una serie infinita di altre persone, anche a distanza di anni.

Eastwood decide di rispettare le unità di tempo e di luogo, senza volutamente creare troppa suspense: sembra piuttosto interessargli la storia di un’amicizia impossibile in cui un figlio fallito cerca di garantire un domani migliore ad un figlio ancora in grado di sognare un mondo diverso, un mondo “perfetto” (come sottolinea l’ironico titolo). Il regista “gioca” con lo spettatore, lo fa affezionare a Butch e poi lo spiazza nel sottofinale in cui l’uomo impazzisce, identificando il sé bambino nei maltrattamenti a cui il contadino Mack – che ospita i due fuggiaschi – sottopone il nipotino. Chi guarda il film perde i suoi appigli, non sa che pensare né tantomeno da che parte stare. Perfetta la confezione filmica, con la preziosa fotografia di Jack N. Green che legge i paesaggi naturali texani con uno sguardo a volte epico, a volte lirico. Regia come al solito apparentemente “classica”, che non disdegna però sottrazioni, divagazioni, cocktail di generi, tempi iper dilatati (le sevizie a Mack, il finale nella radura) alternati a passaggi fulminei, che condensano ore in un solo momento. Visivamente bellissimo ed emotivamente coinvolgente, fu ingiustamente ignorato alla serata degli Oscar. Sicuramente meritavano un premio sia la bella sceneggiatura di John Lee Hancock che l’interpretazione perfetta di un Costner raramente così bravo. E che dire del piccolo T. J. Lowther, che col suo sguardo malinconico più di una volta ruba la scena a tutti? Belle musiche di Lennie Niehaus. E bravo Eastwood, mai banale o schematico nella sua poetica semplicità. La sequenza iniziale deve qualcosa all’intro di Solo sotto le stelle (1961, David Miller) con Kirk Douglas.

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