La leggenda del Re Pescatore

(The Fisher King)

Regia di Terry Gilliam

con Robin Williams (Parry), Jeff Bridges (Jack Lucas), Mercedes Ruehl (Anne), Amanda Plummer (Lydia), Michael Jeter (Il cantante), Tom Waits (veterano).

PAESE: USA 1991
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 135′

Persa tragicamente l’adorata moglie, il professore di storia Parry dà fuori di matto, diventa un clochard e si mette alla ricerca del Sacro Graal nella New York odierna. Lo aiutano un ex Dj in crisi esistenziale che si sente indirettamente responsabile del suo lutto e la di lui simpatica fidanzata.

Quinto film di Gilliam senza Monthy Pyhton e uno dei migliori, certamente il più lucido e il più poetico. La storia del pazzoide buono Parry è il pretesto cui si serve il regista per satireggiare con cinismo la corrotta società americana e tutti i vizi dell’uomo moderno, fino ad una morale già sentita ma non scontata: chi sono davvero i pazzi? Lo siamo tutti, o non lo è nessuno? È un film di una dolcezza rara, intelligente, mai stereotipato, capace di forti picchi drammatici alternati come di parentesi decisamente comiche. È divertente, ironico, fine, e il suo ottimismo non è mai di maniera né tantomeno semplicistico o furbo. È la riuscita storia di una bella amicizia tra due personaggi che non sembrano avere nulla in comune e che in realtà sono molto simili e molto soli, come se da anni fossero in attesa l’uno dell’altro, costretti a vivere in simbiosi per allearsi contro il marciume del mondo. Qualcuno ha rintracciato nella storia echi di Frank Capra, ma la sua dolce malinconia di fondo è molto più vicina all’opera muta di Keaton e Chaplin: la sequenza in cui vediamo per la volta l’imbranata e insicura Lydia potrebbe essere tratta proprio da un film di quest’ultimo. Alla sceneggiatura dell’esordiente Richard LaGravenese (che compare nei panni di uno yuppie) Gilliam innesta il suo indiscusso talento visionario, mostrando una New York popolata di draghi, cavalieri, teppisti, maniaci, palazzi, castelli, che tratteggiano uno spazio mentale più che uno spazio vero e proprio. Molti gli hanno criticato il disequilibrio tra realismo e sogno, senza capire che è proprio questa la sua forza: spazi onirici e spazi reali si fondono in un caos devastante che è alla base della follia del mondo, una follia che non è quella mentale o clinica di Parry, bensì di tutti coloro che non sono riusciti, come invece ha fatto lui, a distaccarsi dalle convenzioni e dai regolamenti umani, prigionieri del grigiore e della mediocrità standardizzata. Visivamente è uno dei film più importanti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, spesso imitato ma quasi mai raggiunto. Gilliam è bravissimo a raccontare i sogni e gli incubi della modernità, e dopo Brazil centra un altro bersaglio non facile da colpire. Peccato che, come sempre accade, siano in pochi ad apprezzarlo: probabilmente, chi lo giudica negativamente fa parte – metaforicamente, si intenda – di quel gruppo di “schiavi” delle convenzioni che Parry combatte. I passi finali sono un po’ sfilacciati e, forse, prevedibili, ma resta comunque ingiusto definire questo “quasi- capolavoro” un filmetto di buoni sentimenti. Molte le scene che non si dimenticano: il ballo dentro la stazione, il monologo di Jack con la statuetta di Pinocchio, il primo appuntamento di Parry e Lydia, il bellissimo finale in Central Park di notte. Il cinquanta per cento della riuscita del film si deve comunque all’eccezionale quartetto di attori protagonisti (Ruehl premiata con l’Oscar), senza dimenticare il compianto Jeter nel ruolo più comico dell’intreccio. Tom Waits appare nel ruolo di un reduce alla stazione. Ottimo lavoro fotografico di Roger Pratt, belle musiche di Goerge Fenton.

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