Broadway Danny Rose

(Broadway Danny Rose)

Regia di Woody Allen

con Woody Allen (Danny Rose), Mia Farrow (Tina Vitale), Nick Apollo Forte (Lou Canova), Sandy Baron (Se stesso), Corbett Monica (Se stesso), Jackie Gayle (Se stesso), Morty Gunty (Se stesso), Will Jordan (Se stesso), Howard Storm (Se stesso), Jack Rollins (Se stesso), Milton Berle (Se stesso), Craig Vanderburgh (Ray Webb), Herb Reynolds (Barney Dunn), Paul Greco (Vito Rispoli).

PAESE: USA 1984
GENERE: Commedia
DURATA: 86′

Vita e gesta del manager Danny Rose, che sembra cercare col lanternino gli artisti più miseri e meno redditizi: ogni qualvolta ne trova uno che vale, questo lo pianta al primo sintomo di successo, come accade col cantane italo- americano Lou Canova. Sconfitto dal lavoro e dalla vita, Danny tornerà dai suoi amici artisti da poco, dove riesce a scorgere ancora un qualche bagliore di civiltà.

L’anno dopo il successo di Zelig, Allen torna all’amato bianco e nero e filma il suo film più tenero, quello più squisitamente malinconico. Come il film precedente è una metafora sull’individualismo schiacciato dall’industria culturale, ma è anche una critica più o meno feroce sullo show business, un ramo sociale del nostro tempo che spesso dimentica volutamente chi sta dietro le quinte e si fa il mazzo perché lo spettacolo prosegua. Non solo. Nel suo film più religioso – ovviamente in senso biblico e non cattolico – Allen costruisce il suo protagonista come un imperfetto e fanfarone “santo, la cui missione è quella di salvare i derelitti” (Paolo Mereghetti), e cercare di riconoscer loro la dignità che meritano: sono zoppi, brutti, malformati, ma sono molto più “veri” di chiunque compaia sui titoli dei giornali. Cinquant’anni dopo la bellissima lezione di Freaks (1932) di Tod Browning, Broadway Danny Rose canta con lucida dolcezza i reietti e i perdenti, con uno sguardo sempre rispettoso e partecipe che ricorda l’opera del nostro Fabrizio De Andrè. Il racconto, costruito su un lungo flashback – che parte dalle parole di alcuni comici amici di Danny che rimembrano vecchie storie al bar – è scorrevole e pienamente alleniano nel suo equilibrio concettuale e visivo tra luoghi e persone, tra commedia e tragedia, tra sacro e profano. Non è il miglior Allen – qualche sequenza “dialogica”è un po’ noiosa, forse datata – ma basta e avanza una strepitosa sequenza come quella finale (in cui Tina torna da Danny e festeggia con lui e i reietti) per inserirlo in una ideale top ten dei film dell’artista. È fresco, dolcissimo, malinconico. Tanto che, dice Morandini, quando finisce si ha la sensazione di uscirne più intelligenti.

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