Manhattan

(Manhattan)

Regia di Woody Allen

con Woody Allen (Isaak “Ike” Davis), Diane Keaton (Mary Wilke), Michael Murphy (Yale), Mariel Hemingway (Tracy), Meryl Streep (Jill), Anne Byrne (Emily), Karen Ludwig (Connie), Michael O’Donoghue (Dennis), Karen Allen (Attrice Tv).

PAESE: USA 1979
GENERE: Commedia Drammatica
DURATA: 96′

New York. Mentre la ex moglie scopertasi lesbica sta scrivendo un libro sulle loro esperienze sessuali, l’autore televisivo “Ike” Davis si innamora della giornalista Mary, ex amante dell’amico Yale, e lascia la fidanzata diciassettenne Tracy. Quando Mary torna sui suoi passi e fugge con Yale, “Ike” tenta di ricucire i rapporti con Tracy, ma ormai è tardi e lei sta partendo per andare a studiare a Londra.

Dopo la svolta drammatico- bergmaniana di Interiors (1978) Allen torna davanti alla macchina da presa e riprende gli spazi, le atmosfere e la tipologia di personaggi che avevano reso grande il precedente Annie Hall, film con cui questo condivide i protagonisti (Allen e Keaton) e il co- sceneggiatore (Marshall Brickmann). Ma non dimentica comunque la sua digressione nel melò, girando un film drammatico che si mescola e si integra sapientemente coi toni della commedia, tra ironia e tenerezza. È un sincero e accorato canto d’amore di un uomo per la sua città – di cui evidenzia anche le ombre, a differenza che in Io e Annie – una città caotica, sporca, tradita dai suoi stessi abitanti, ma che conserva nonostante tutto un fascino primordiale. Non solo: il corredo urbano di Manhattan si fa metafora del decadimento civile e morale di un’intera società, un degrado dettato dalla fine dell’etica, dalle catene di fast food, dai rifiuti, dalla televisione, dal sesso facile e “meccanizzato”. L’unica speranza, pur effimera, si legge negli occhi di una giovane ragazza che ama ancora la vita: in modo ingenuo, certo, ma anche “vero”, libero. Riprendendo i toni autobiografici degli esordi, Allen dice la sua su politica, sesso, religione, morte (non a caso, gli elementi propri della satira secondo Aristotele) , con una libertà espressiva che pochi registi contemporanei hanno saputo mettere in campo. Per quanto riguarda la forma filmica, il regista segue percorsi opposti rispetto a Annie Hall: opta per un poetico bianco e nero – fotografia meravigliosa di Gordon Willis – che è un omaggio sia al cinema “di una volta” (elementi di screwball comedy e slapstick si fondono armoniosamente) sia alle atmosfere “fiabesche” e surreali della musica di George Gershwin, che non a caso contrappunta l’intera pellicola; sceglie un andamento e una messa in scena quasi sempre lineari, senza digressioni grottesche o meta- cinematografiche, puntando sull’essenziale; privilegia infine i luoghi rispetto ai personaggi (anche tramite l’uso del formato panoramico Panavision), che spesso restano fuori campo e in genere “osservano” più che essere oggetto di sguardo. Molte le sequenze che non si scordano: l’effimero amore tra Ike e Mary che nasce al planetarium, davanti alle stelle finte, simbolo di una storia “irreale”, che difficilmente avrà successo, il dialogo finale tra Ike e Tracy, il discorso dello scrittore a scuola, di fianco allo scheletro. Ma soprattutto il magnifico sottofinale in cui Ike elenca le cose per cui vale la pena vivere, cose “concrete” che però tendono all’infinito. Fortunatamente Allen è un regista che ama il cinema, non un cinefilo come Tarantino e De Palma: per questo è uno dei più grandi. In modo opposto a Annie Hall, la seconda parte è migliore della prima. Strepitoso successo di pubblico in tutto il mondo, ma nemmeno un Oscar.

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