L’occhio del ciclone – In the Electric Mist

(In the Electric Mist – Dans la Brume Electrique)

Regia di Bertrand Tavernier

con Tommy Lee Jones (Dave Robicheaux), John Goodman (Julie “Baby Feet” Balboni), Peter Sarsgaard (Elrod Sykes), Kelly Macdonald (Kelly Drummond), Mary Steenburgen (Bootsie Robicheaux), Justina Machado (Rosie Gomez), Ned Beatty (Twinky LeMoyne), James Gammon (Ben Hebert), Pruitt Taylor Vince (Lou Girard), Levon Helm (Generale John Bell Hood), Buddy Guy (Sam “Hogman” Patin), Julio Cesar Cedillo (Cholo), Alana Locke (Alafair Robicheaux), Bernard Hocke (Murphy Doucet), Gary Grubbs (Sheriff).

PAESE: Francia, USA 2009
GENERE: Poliziesco
DURATA: 117′

New Orleans, qualche tempo dopo l’uragano Katrina. In un paesino di provincia, mentre è in corso una lenta ricostruzione, l’anziano tenente Robicheaux indaga sulla morte di una ragazza trovata nella palude. Ma deve anche fare i conti coi fantasmi del proprio passato, che tornano a galla quando un divo di Hollywood alcolizzato lo guida ad uno scheletro vecchio di quarant’anni e gli parla di strane visioni con protagonisti i soldati confederati della Guerra Civile americana.

Tratto dal romanzo In The Electric Mist with the Confederate Dead di James Lee Burke e sceneggiato da Jerzy Kromolowski (La promessa, Sean Penn, 2011), L’occhio nel ciclone è un anomalo poliziesco che inspiegabilmente non ha trovato pubblico qui da noi. Al di là del finale molto vicino al Shining di Kubrick e delle parentesi da ghost story, non è un thriller sovrannaturale: è più che altro un bel noir moderno ambientato in una Terra desolata popolata di metaforici fantasmi. Il disastro viene evocato raramente, ma il senso di morte e distruzione che ne soggiace accompagna tutto il film. Le visioni di Sykes prima e del protagonista poi non sono tanto divagazioni horror quanto metaforiche apparizioni di una coscienza che guida i giusti, una dimensione che non è poi così “fantasmatica” rispetto all’esistenza stessa dei personaggi, anch’essi ridotti a fantasmi costretti a girovagare in una landa perduta alla fine del mondo. Le parentesi oniriche non fanno altro che accentuare quel senso metafisico proprio di una specie di terra di mezzo, abbandonata dal mondo e lentamente ricostruita dai soli sopravvissuti. Una terra in cui il passato non lascia vie di fughe perchè il tempo, invece di procedere o fermarsi, procede a ritroso.

Ma è anche uno sguardo lucido su una Louisiana (e su un sud) razzista, perbenista, incapace di lavare le proprie colpe e per questo costretto a nasconderle sotto i detriti ammucchiati dal vento. Al di là delle componenti poliziesche, resta un piccolo capolavoro del genere in cui i personaggi contano più della trama e le atmosfere contano più dei personaggi: non a caso, la soluzione del caso non è poi così inaspettata come ci si immaginerebbe. Perché questo? Forse perché a Tavernier (classe 1941), più che lo sviluppo dell’indagine – che comunque gli serve per dire la sua sulla perversione dei nostri tempi – importa lo squarcio di vita corale sulle esistenze di questi fantasmi, ognuno dei quali tenta nel bene e nel male di tirare avanti nuotando tra il caos e la vergogna (anche Robicheaux, in fin dei conti, è un ex alcolizzato). Con una inaspettata dose di dolcezza, riscontrabile nei rapporti di Robicheaux con moglie, figlia adottiva e amico alcolizzato.

Il regista fiata sul collo del suo integerrimo, anziano, saggio protagonista e non lo abbandona mai, ricostruendo la storia senza mai abbandonarne il punto di vista disilluso ma ancora deciso. Gli dà spessore un eccezionale Tommy Lee Jones, attore che lavora per sottrazione e sfrutta a pieno e in modo funzionale una recitazione compassata e perennemente sotto le righe. Raramente l’attore texano era stato così bravo nell’aderire ad un personaggio, e il film ci guadagna in realismo e coinvolgimento emotivo. Con un ritmo disteso che però non si “abbiocca” mai, il film sfrutta i dettami del noir (la voce narrante di Dave, il continuo scroscio della pioggia temporalesca) e crea atmosfere suggestive che diventano luoghi dell’anima più che posti reali. Atmosfere aiutate dalla scelta di girare nella Louisiana post- Katrina, in quelle zone paludose che come i suoi abitanti nascondono la verità sotto l’acqua e il fango delle paludi: Tavernier, come Kubrick, preferisce parlare con le immagini (bellissime, per giunta) che con il verbo, e lo fa con un talento visionario originale capace di colpire l’inconscio e di esprimere le emozioni meglio di qualunque dialogo. Senza dimenticare che, con una grande intelligenza registica che nega ogni compiacimento, suggerisce la violenza senza mai mostrarla: preferisce indagarla nelle conseguenze psicologiche e sociali.

Stupenda fotografia di Bruno De Keyzer, ottimi tutti gli attori: dal già citato Lee Jones nel ruolo di un idealista testardo alla ritrovata Mary Steenbrugen, che come il buon vino invecchiando migliora; dall’imponente John Goodman che recita come se si trovasse in un film dei Coen al giovane Sarsgaard, capace di dare spessore al proprio “divo”. E che bravi anche i caratteristi! Ottime anche le musiche, ovviamente a ritmo di blues. Immeritato l’insuccesso di pubblico – da noi non è nemmeno uscito in sala – per un film che, più che un giallo, è una parabola esistenziale: parte dallo sguardo antropologico su una comunità di cajun e approda ad una riflessione sull’intera umanità.Ne esistono due versioni, una francese e una americana. Di quest’ultima, il regista ha disconosciuto il montaggio. Da scoprire in home video, sicuramente.

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