Contagion

(Contagion)

Regia di Steven Soderbergh

con Laurence Fishburne (Dottor Ellis Cheever), Matt Damon (Thomas Emhoff), Jude Law (Alan Krumwiede), Marion Cotillard (Leonora Orantes), Kate Winslet (Erin Mears), Gwyneth Paltrow (Beth Emhoff), Bryan Cranston (Lyle Haggerty), Jennifer Ehle (Dottoressa Ally Hextall), Sanaa Lathan (Aubrey Cheever), Elliott Gould (Dottor Ian Sussman), Amr Waked (Rafik), Demetri Martin (Dottor David Eisenberg).

PAESE: USA 2011
GENERE: Drammatico
DURATA: 105′

Partito da Honk Kong, il contagio di un nuovo virus si spande velocemente nel resto del mondo. Il CDC (Center for Disease Control) cerca di arginare l’epidemia, ma intanto, dopo appena un mese di contagio, il virus è stato contratto da circa un miliardo di persone…

Presentato fuori concorso a Venezia 2011, dove ha strappato parecchi applausi, il nuovo film del prolifico Steven Soderbergh – in circa 25 anni quasi trenta regie, tra film, documentari e serie Tv – è un anomalo catastrofico post- apocalittico che rivela presto il suo scheletro di metafora esistenziale: più che un film di fantascienza su un virus letale, è una riuscita parabola sulle leggi del caos che governano il mondo, e di conseguenza governano lo spargersi a macchia d’olio di un’infezione. Infatti Soderbergh costruisce sì la narrazione in modo lineare – ovvero sovrapponendo alle immagini le scritte del numero di giorni dall’inizio del contagio – ma lo fa partendo dal “giorno 2”, tenendo il primo giorno, quello che spiega com’è nato tutto (dal locale al globale), per la sequenza finale. Si tratta di una scelta felice sia a livello commerciale (il pubblico ama la sorpresa finale), sia a livello tematico- narrativo: il regista ci mostra un cataclisma senza eguali, un’epidemia terrificante, una mobilitazione mai vista, e alla fine ci mostra che tutto questo è nato da una semplice coincidenza avvenuta in un isolato e sperduto boschetto cinese.

Il cineasta americano imposta il film come fosse lo spargersi di un virus: parte dal piccolo, dall’insignificante – una donna malaticcia all’aeroporto – e approda all’enorme, all’universale (miliardi di persone infettate). E lo fa con arguzia, come dimostra la bellissima sequenza iniziale, che in un pugno di immagini ben montate mostra come, nella vita di tutti i giorni, tocchiamo una miriade di cose che tutti toccano quasi senza accorgersene: il pulsante di un ascensore, il bicchiere al bancone, un giornale, un documento che richiede più firme. Con parecchi sottotesti socio- politici: il virus elimina ogni rapporto umano tra le persone – si passa tramite il tatto – e alcune sequenze che mostrano gli uomini immobili, come privi di vita, di fervore, già morti dentro, sembrano sottolineare che già adesso, senza alcuna epidemia, non siamo poi molto lontani da questo isolamento.

La narrazione su molteplici punti di vista funziona con precisione, e come in Traffic, alcuni sono destinati ad incontrarsi, altri a sfiorarsi, altri ad ignorarsi. Perché questo? Ovvio, perché il mondo è governato dal caos. Forse l’anomalia più grande del film – e, forse, la scelta più coraggiosa – sta nella decisione di girare un film apocalittico basandolo quasi interamente sui dialoghi: il risultato, certo, è un po’ verboso in alcune parti, ma è indiscutibile che gli sviluppi dell’intreccio siano quantomeno verosimili e realistici. Anche se rifiuta la spettacolarizzazione (non ci sono scenari apocalittici a iosa, né celebri simboli cittadini distrutti, ecc) le poche immagini che non si basano su meri dialoghi sono di forte impatto visivo ed emotivo: le fosse comuni, i disordini per il cibo, l’aggirarsi di Alan in mezzo all’immondizia. E la suspense angosciosa, pur priva di visioni troppo “apocalittiche”, non manca. Ha un neo che, più che un difetto, rappresenta una scelta anomala per il genere: i militari fanno una bellissima figura.

Una squadra di ottimi attori – su cui spiccano un Damon sotto le righe e un eccezionale Fishburne – guidano la resistenza umana contro la pandemia: chi accusa il film di proporre solo personaggi positivi (la Winslet, la Cotillard, Gould, oltre ai due già citati) confonde il buonismo con la complessità. Lo dimostra il personaggio di Fishburne, che sì sbaglia, ma è un uomo giusto: e poi, obbiettivamente, chi di noi se potesse rifiuterebbe di salvare la propria compagna prima degli altri? E il suo bellissimo gesto, nel finale, carica il personaggio di una discreta statura morale. E poi un personaggio quanto meno ambiguo c’è: è il blogger Alan, che come un Beppe Grillo americano si atteggia a detentore della verità – e forse lo è – ma poi finge di essersi ammalato e guadagna miliardi con gli sponsor. Belle musiche del batterista compositore Cliff Martinez, che mescolano elettronica e classica. Il rifiuto dei canoni hollywoodiani lo penalizzerà senz’altro a livello di pubblico: peccato, perché è davvero un bel film.

La trama non è certo così originale – come prontamente molti detrattori hanno affermato – ma Soderbergh ha imparato con intelligenza che l’importante non è il vestito, ma come lo si porta.

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3 risposte a Contagion

  1. Devo dirti la verità: dal trailer mi sembrava la classica americana catostrofica.
    Però dalla tua recensione sembrerebbe tutto il contrario. Misà che allora faccio un salto al cinema, se ancora non è stato tolto dalla programmazione! 😉

  2. nehovistecose scrive:

    Grazie per la fiducia! 😀

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