J. Edgar

(J. Edgar)

Regia di Clint Eastwood

con Leonardo DiCaprio (J. Edgar Hoover), Armie Hammer (Clyde Tolson), Naomi Watts (Helen Gandy), Josh Lucas (Charles Lindbergh), Ed Westwick (Agente Smith), Lea Thompson (Lela Rogers), Dermot Mulroney (Colonnello Schwarzkopf), Jeffrey Donovan (Robert Kennedy), Stephen Root (Arthur Koehler), Judi Dench (Anne Marie Hoover), Ken Howard (Generale Harlan F. Stone), Miles Fisher (Agente Garrison), Ryan McPartlin (Lawrence Ritchie), Damon Herriman (Bruno Hauptmann), Christian Clemenson (Ispettore Schell), Zach Grenier (John Condon).

PAESE: USA 2011
GENERE: Biografico, Drammatico
DURATA: 137′

J. Edgar Hoover, ormai anziano direttore dell’FBI, racconta ad alcuni agenti dattilografi la sua vita: da semplice impiegato a capo supremo, attraverso le persecuzioni contro gli anarchici, i comunisti, i simpatizzanti, i semplici criminali. Si scopre che una madre tiranna contribuì a formare la sua personalità rigida e priva di sentimenti, che non riuscì mai a conciliare con una latente omosessualità verso il suo vice Tolson.

Terzo biopic di Eastwood, dopo il bellissimo Bird (sulla vita del jazzista Charlie Parker) e il discreto Invictus (su Nelson Mandela), scritto dal giovane talentuoso Dustin Lance Black (Milk). Nel suo personale percorso tra le luci e le ombre della società USA non poteva mancare il ritratto dell’uomo che ha guidato l’FBI per quasi cinquant’anni, attraverso otto presidenti (da Coolidge a Nixon), che schedò l’intero paese per combattere la criminalità e il comunismo e scrisse migliaia di dossier che potevano incastrare chiunque, dai rapinatori al Presidente Kennedy. La visione eastwoodiana del personaggio è quella di un perdente cronico tiranneggiato da una madre diabolica che opprime gli altri per opprimere sé stesso. Il discorso sul potere sembra non interessargli più di tanto: preferisce studiare la personalità di un uomo quasi privo di sentimenti che scarica sul lavoro i suoi problemi psichici, o sondare con piglio mai retorico il rapporto difficile tra due uomini che si amavano ma non potevano dirlo. Fin qui tutto bene, ma ciò che non piace è il fatto che Eastwood – con un’operazione simile al W. di Oliver Stone – faccia del suo personaggio una vittima (della madre, della società, della politica), una sorta di perdente ipocrita che colmò col potere il suo bisogno d’affetto. La redenzione finale, enunciata da Hoover prima di morire, è una scelta che sarebbe stata centrata se si fosse trattato di un personaggio inventato: ma Hoover esistette davvero, e perseguitò, arrestò, deportò, e l’attribuzione di una coscienza (che, sembra suggerire Eastwood, si deve anche ai più cattivi) suona male perché voluta dal regista (nessuno l’ha raccontata, quindi è frutto di fantasia) e quindi sorta di rivisitazione “positiva” del personaggio.

Hoover fu sfruttato dal potere quando gli serviva (cacciare gli anarchici negli anni ’20 – ’30) e attaccato quando sorse l’impero dei media che pretende sempre eroi coraggiosi (i politici gli criticavano di non aver compiuto nessun arresto di persona), e di sicuro anche i Presidenti, che avevano sempre qualcosa da nascondere, lo lasciarono al suo posto per paura di finire nei guai: ma Hoover non fu certo una vittima, bensì un ingranaggio ben oliato – e consapevole – di un marchingegno più grande di lui ma su di lui scolpito. Certo, aiutò le forze dell’ordine inventando la scientifica e creando un meccanismo efficiente, ma questo non deve mai essere considerato un’apologia nei confronti delle sue (provate) malefatte. Magari salvò l’America da attacchi esterni, ma a quale prezzo? La libertà del singolo, secondo noi, e anche Eastwood lo suggerisce. Senza però mai condannarlo, condannando al suo posto il Paese intero. Al di là di questi difetti (storia troppo romanzata, personaggio che ne esce come “vittima” e non come “carnefice”), il film è un Eastwood al cento per cento, e si fa apprezzare per le bellissime scelte di regia (quasi tutto girato in interni, costruzione a flashback come scatole cinesi, ricordi di Hoover misti a supposizioni del regista, il finale speculare rispetto all’inizio, ecc…), per una gamma di ineccepibili contributi tecnici (come montaggio e fotografia dei fidati Joel Cox e Tom Stern), per uno stile maturo che non scivola in banalità o retorica e racconta le storie con passo lento, riflessivo, lo stesso di un uomo che a 81 anni tira le somme della sua vita.

Un film classico? Certo, ma servirebbe un libro per spiegare come lo sia. Eastwood non ha più alcun bisogno di urlare, e segue i suoi personaggi schierandosi ma compatendoli, utilizzando una regia fortemente anti- spettacolare che sa cogliere le sfumature e i dettagli importanti. DiCaprio conferma il suo insindacabile talento, ed è l’unico “invecchiato bene”: il suo amante- vice, interpretato da Hammer (classe 1986), è truccato così male che fa quasi ridere; si doveva cambiare attore per le scene negli anni sessanta. Troppo lungo, colpito dalla smania di raccontare troppo e tutto (a scapito di creare tempi morti che da Eastwood non ci si aspetta), è dotato comunque di un buon ritmo che, immancabilmente, si esaurisce nei troppi sottofinali. Ci si aspettava di più da Eastwood, e il film è riuscito solo a metà: ma, chissà come – forse perché il regista è un “grande regista” – non è un brutto film, ed è capace di passi ben congegnati che coinvolgono ed emozionano. Eastwood propende per la Storia e tralascia la metafora, ma fargliene una colpa sarebbe eccessivo. Voluta o no, la sua ambiguità (Hoover precursore o semplice folle?) è sia un limite che un pregio. In America – dove Hoover è per molti un eroe – qualcuno ha comunque storto il naso, e questo vuol dire che Eastwood è lontano dall’agiografia. E che dire della messa in scena della storia d’amore tra Hoover e Tolson? Saranno anche tutti passi inventati, ma rappresentano una delle love story più poetiche e perfette della storia del cinema. Da Eastwood non ce lo si aspetta, e lui invece gira le migliori scene d’amore del suo cinema con due uomini che si amano: solo per questo, meriterebbe un plauso.

È un film cupo questo J. Edgar. Un film livido, plumbeo, addirittura claustrofobico in certi momenti. È il film di un fallimento e di una sconfitta: non tanto quella del protagonista, già giudicato dalla Storia, ma piuttosto quella dell’America, del Paese e del mito in cui più o meno si era sempre identificato Clint Eastwood. (Paolo Mereghetti).

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