Traffic

(Traffic)

Regia di Steven Soderbergh

con Benicio Del Toro (Javier Rodriguez Rodriguez), Michael Douglas (Robert Hudson Wakefield), Catherine Zeta-Jones (Helena Ayala), Don Cheadle (Montel Gordon), Luis Guzmán (Ray Castro), Tomás Milián (Generale Salazar), Erika Christensen (Caroline Wakefield), Jacob Vargas (Manolo), Dennis Quaid (Arnie Metzger), Topher Grace (Seth), Amy Irving (Barbara Wakefield), Miguel Ferrer (Eduardo Ruiz), Albert Finney (capo dello staff), James Brolin (Generale Landry), Benjamin Bratt (Juan Obrégon), Steven Bauer (Carl Ayala), Clifton Collins Jr. (Francisco Flores), D. W. Moffett (Jeff Sheridan), Peter Riegert (Michael Adler), Majandra Delfino (Vanessa), Salma Hayek (Rosario), Marisol Padilla Sánchez (Ana Sanchez).

PAESE: Germania, USA 2000
GENERE: Drammatico
DURATA: 137′

Tre storie legate al mondo della droga che non si incontrano ma si sfiorano: in Messico, una coppia di poliziotti inizia a lavorare per un generale dell’esercito che gestisce di nascosto un cartello di narcos; a Washington un giudice dell’antidroga, appena eletto capo del dipartimento, scopre che la figlia sedicenne è tossicodipendente; a San Diego la moglie di un trafficante impara presto a curare gli affari del marito, arrestato dalla DEA (agenzia americana antidroga).

Opera numero dieci di Soderbergh, cineasta più o meno indipendente che alterna prodotti hollywoodiani (Out of Sight, Ocean’s Eleven) a film di impegno civile (Erin Brockovich). Alcuni hanno gridato al capolavoro, altri al film d’autore, ma Traffic non è né l’uno ne l’altro. È piuttosto un gran film corale con una moltitudine di personaggi ma senza protagonisti: la vera protagonista è la droga, da quando parte dalle polverose periferie messicane a quando arriva nei ricchi salotti della buona borghesia di Washington, DC. Soderbergh ne evidenzia gli aspetti antropologici, la rappresenta come un’appendice del potere e ne studia, con sequenzialmente, l’indebellabilità. Il suo lavoro non è – come molti detrattori hanno sostenuto – un’ennesima ramanzina su quanto la droga sia cattiva: il messaggio del film è indubbiamente quello, ma il regista sembra piuttosto interessato a mettere in scena la dignità di chi cerca di distruggerla, di chi continua a lottare nonostante le scarse speranze di riuscita, attaccando anche l’autorità quando questa diventa peggiore di ciò che combatte (le torture al sicario). La bellissima sequenza finale dell’episodio ambientato a San Diego – in cui il poliziotto Montel riesce a mettere una cimice in casa del ricco trafficante e poi se ne va sorridendo, convinto di aver fatto onestamente il proprio dovere – racchiude il senso del film, un senso fortemente “morale”: come morale è la scelta del poliziotto messicano di vendere un cartello alla Dea in cambio di un campo da baseball illuminato per i bambini del suo quartiere, o quella del giudice di dimettersi in quanto non è ancora riuscito a risolvere il problema della droga nel suo microcosmo familiare.

Rifiutando di mettere in scena personaggi al cento per cento positivi (eccezion fatta per il Montel di Cheadle e il Ray di Guzmán), e rifiutando di conseguenza qualsiasi identificazione, la sceneggiatura di Stephen Gaghan non perde mai un colpo, e non era facile considerando l’incredibile quantità di personaggi da orchestrare. Non ce n’è uno che sia psicologicamente sfocato, nemmeno tra i tanti comprimari. Soderbergh costruisce tre storie distinte, che si sfiorano ma non si incontrano mai: per quella messicana opta per un filtro giallo (simbolo di calura, soffocamento, oppressione), per quella washingtoniana un filtro blu (freddezza, austerità), mentre per quella ambientata a San Diego non ne utilizza nessuno. Come se quella fosse una realtà oggettiva e le altre due dimensioni simboliche, metafisiche, quasi astratte. Ma, tragicamente e crudelmente, “vere”. La violenza, senso recondito che permea il racconto come “gemella” della droga, rimane quasi sempre fuori campo, mostrandosi soltanto nelle sue ben più terribili conseguenze. Tutto il film è girato con la camera a mano, il che suggerisce una scelta ambivalente: da un lato accentua il realismo delle interpretazioni degli attori (praticamente tutti straordinari), dall’altro, avvicinandosi al documentario, sottolinea la veridicità di ciò che viene narrato e catapulta lo spettatore “dentro” il film, a spalla a spalla coi personaggi.

L’occhio del regista diventa l’occhio del giornalista che, mostrando paradossalmente qualcosa di “finto” (inteso come parente della finzione cinematografica), dipinge un quadro assolutamente fedele al reale e per questo ancor più terribile. Grande fotografia dello stesso Soderbergh, ma il contributo tecnico migliore sono senza dubbio le musiche di Cliff Martinez. Ma è bellissimo anche il brano finale di Brian Eno, “Ascent”, capace di trasformare una sequenza come quella finale (i ragazzini giocano a baseball finalmente “illuminati” grazie a Del Toro), statica e surreale, in un pezzo lirico di assoluta poesia. Chi giudica la scena come un apologo “americano” (anche i messicani sognano il baseball), non ha compreso che in realtà si tratta di una suggestiva rappresentazione dei falsi miti del mondo civilizzato. Come dire, “cari statunitensi, avete dato al Messico il sogno del baseball ma non fate nulla perché i bambini ci possano giocare”. Quattro Oscar: Benicio Del Toro attore non protagonista (non protagonista?), regia, sceneggiatura non originale e montaggio (Stephen Mirrione). Grande ritorno di Tomas Milian.

Da vedere.

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