Gli uccelli

(The Birds)

Regia di Alfred Hitchcock

con Rod Taylor (Mitchell “Mitch” Brenner), Tippi Hedren (Melania Daniels), Jessica Tandy (Lydia Brenner), Suzanne Pleshette (Annie Hayworth), Veronica Cartwright (Cathy Brenner), Ethel Griffies (Signora Bundy, ornitologa), Charles McGraw (Sebastian Sholes, pescatore), Ruth McDevitt (Signora MacGruder), Lonny Chapman (Deke Carter, cuoco).

PAESE: USA 1963
GENERE: Horror
DURATA: 119′

Giunta nel paesino marittimo di Bodega Bay con l’intento di corteggiare un uomo conosciuto in un negozio di animali, la giovane ereditiera Melania viene attaccata da un gabbiano. È solo l’inizio: presto, tutti gli uccelli del posto si coalizzano e iniziano ad attaccare gli esseri umani…

Primo film di Hitchcock dopo l’exploit di Psyco (1960), Gli Uccelli è tratto da un racconto di Daphne DuMaurier, sceneggiato per l’occasione dallo scrittore Evan Hunter (meglio conosciuto con lo pseudonimo Ed McBain). Rappresenta forse il punto più alto della “fase matura” del mago del brivido, ma è anche uno dei film più importanti della storia del cinema americano. È la prima opera che mette in scena un’apocalisse “moderna”, oscura, senza via di scampo, che tiene conto di tutta una serie di implicazioni – sociali, politiche, storiche, etiche – nel suo tratteggiare la fine dell’uomo. La sua è una fantascienza adulta, che analizza il rapporto tra l’umanità e la sua inderogabile, auto provocata (meritata?) fine. Un film che – dissero molti detrattori – “non finisce” e “non spiega”, e proprio per questo non è difficile accorgersi che alla semplicità narrativa della storia è contrapposta una serie infinita di possibili letture: cosmologica (l’uomo lascia il suo posto predominante nell’ordine delle cose), ecologica (gli uccelli si vendicano dei troppi maltrattamenti subiti), antropologica (la comunità, invece di divenire solidale nel momento dell’incubo, si sgretola), religiosa (Dio punisce la superbia dell’uomo attraverso le sue più innocue creature); c’è chi vi ha trovato metafore psicanalitiche (i desideri repressi dei protagonisti esplodono quando impazziscono gli uccelli), psicologiche (la tensione, prima che tra gli uccelli, è tra i personaggi), politiche (la paura che la comunità cova a riguardo del nemico che arriva “dall’esterno”). Quel che è certo, è che il solo fatto che abbia suggerito così tante letture ne fa un film moderno e potentissimo, infinito, universale.

Il genere si tinge di un pessimismo esasperato (è solo la casa dei Mitchell ad essere coperta di uccelli? O è l’intera città? La regione? Il mondo? Perché gli uccelli, nell’ultima scena, non li attaccano? Forse non ne hanno più bisogno perché sono diventati la nuova “razza” che abita la Terra?), e suggerisce al genere nuove vie che appena cinque anni dopo (1968) verranno riprese da Romero ne La notte dei morti viventi. Costruendo un quadro di personaggi perfettamente descritti nelle loro psicologie, Hitchcock espone i temi a lui cari (l’abbandono, l’incomunicabilità, il ruolo opprimente della donna e della madre, il doppio, la frantumazione – dell’io e degli oggetti) e li carica di venature quasi morbose, angoscianti, disperate. La sceneggiatura non perde un colpo nonostante le quasi due ore di durata e, rispettando le tre unità aristoteliche (luogo, tempo, azione) quasi totalmente, crea un ritmo che parte volutamente sciatto, ridondante, piegato su sé stesso e diventa man mano indiavolato, accelerato, fulmineo: i primi 45’ (in cui non vediamo nient’altro che Melania flirtare con Mitch) sono un “gioco” che Hitch attua nei confronti dello spettatore; lo fa quasi sbadigliare, gli fa abbassare la guardia, per poi colpirlo a sorpresa con la scena dell’attacco dei volatili alla festa di compleanno che da il via ad una seconda parte incline all’horror in cui non c’è più un attimo di tregua.

Hitchcock porta alla storia una consueta, cinica ironia, e la sua regia si mostra da subito innovativa ed originale: sfrutta in modo quasi wellesiano la profondità di campo (si veda la sequenza dei corvi alle spalle di Melania, nel giardino della scuola), accelera il montaggio negli attimi più paurosi (come nella terrificante scena del ritrovamento del cadavere di Fawcett), e opta per la scelta coraggiosa di girare un film intero senza alcun commento musicale, sostituito dai suoni degli uccelli strutturati da Bernard Herrman come vere e proprie canzoni, con tanto di partiture. Un film che, caso unico nella storia del cinema sonoro, propone un inquietante silenzio nelle scene più terribili, in cui ci si aspetterebbero grida o musiche. Hitch gioca coi canoni hollywoodiani: lo spettatore, abituato a percepire nelle sequenze drammatiche un commento musicale che le enfatizzi, trova nel silenzio un elemento surreale; senza accorgersi di essere “anestetizzato” dalle regole del classico: nella vita vera non c’è alcuna colonna sonora, ma nessuno la definisce “surreale”. A questo proposito si veda la scena (da antologia) in cui Lydia scopre il cadavere ma non riesce ad urlare per lo shock, miscuglio perfetto e visionario tra L’urlo di Munch e il cinema di Ejzenstejn. Il silenzio diventa un’arma per creare una palpabile suspense, che nessuna sequenza “rumorizzata” riuscirà mai ad eguagliare.

Una schiera infinita di contributi tecnici ineccepibili: dalla fotografia di Robert Burks al montaggio di George Tomasini, dagli effetti speciali (che usarono addirittura animazioni disegnate) di Larry Hampton e Ub Iwerks (collaboratore di Walt Disney) agli effetti sonori curati da Oskar Sala e Matthew Ross; gli uccelli, guidati dall’addestratore Ray Berwick, provocarono parecchi feriti all’interno della troupe, mentre l’associazione Humane Society vigilò per assicurarsi che nessuno dei volatili fosse maltrattato. Il regista appare fuori dal negozio di animali, mentre tiene al guinzaglio due cagnoloni. L’attacco finale è tutt’oggi un saggio di suspense, che andrebbe studiato nelle scuole di cinema. L’unico film di Hitchcock in odor di sovrannaturale resta anche la sua opera più terrificante, angosciosa, paurosa, perfetta.

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