Don Camillo monsignore… ma non troppo

Regia di Carmine Gallone

con Fernandel [Fernand Contandin] (Monsignor Camillo), Gino Cervi (Senatore Giuseppe “Peppone” Bottazzi), Leda Gloria (Maria Bottazzi), Gina Rovere (Gisella Marasca), Valeria Ciangottini (Rosetta Grotti), Saro Urzì (il sindaco Brusco), Marco Tulli (Lo smilzo), Andrea Checchi (dirigente del PCI), Ruggero De Daninos (segretario di Monsignor Camillo), Emma Gramatica (Desolina), Karl Zoff (Walter Bottazzi), Carlo Taranto (Marasca), Armando Bandini (Don Camillo).

PAESE: Italia 1961
GENERE: Commedia
DURATA: 117’

Uno è diventato Monsignore, l’altro Senatore: Camillo e Peppone, che non si vedono da tre anni pur vivendo entrambi nella capitale, tornano ancora una volta al paesello – dove finalmente regna la pace tra preti e comunisti – per risolvere un problema edilizio legato ai nuovi appartamenti popolari voluti dalla giunta. E, già che sono lì, tornano a scontrarsi come ai vecchi tempi, questa volta per decidere se il figlio di Peppone deve sposarsi in chiesa o in municipio.

Quarto capitolo della saga nazionalpopolare più nota d’Italia, scritto dal regista con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi e giunto in sala sei anni dopo il terzo (Don Camillo e l’onorevole Peppone, 1955, sempre di Gallone). Ambientato in pieno clima di distensione, e sempre impregnato di quel culto rurale che aveva reso le storie di Giovannino Guareschi universali e adatte ad ogni tipo di pubblico, il film è forse il più malinconico della serie: i tempi sono cambiati, Camillo e Peppone non hanno più voglia di farsi la guerra (anche perché il clima mondiale è profondamente mutato) e, quando la trovano, essa appare anacronistica e lontana dal bene comune. Possiede tutti i difetti del terzo – gli screzi diventano dispetti personali, la credibilità delle trovate è sempre più precaria, le sequenze sanno di già visto e già sentito – e gli è addirittura minore per diversi motivi: poche sono le gag davvero divertenti, e la strepitosa accoppiata di testa, pur impeccabile, è mal servita da una sceneggiatura che spesso non fa ridere e si limita a riproporre vecchi tormentoni; alcune bravate di Don Camillo – come lo scherzo alla compagna Gisella – sono decisamente troppo forti, e va a finire che anche il pretone diventa antipatico agli occhi dello spettatore. E che dire della scena, agghiacciante, in cui il Monsignore prima si rifiuta di suonare le campane per uno dei morti comunisti di Reggio Emilia (1960), poi ruba il batacchio della campana comunale e, infine, come se stesse facendo un favore ai bolscevichi (e non un atto dovuto), suona le campane a malincuore facendo la figura del grande uomo? Non è solo la scena più reazionaria della saga, è anche la più spregevole e pericolosa. La scena da applausi, comunque, c’è: quella in cui Camillo scopre che Peppone ha vinto al totocalcio ma ha dato un falso nome (Pepito Sbazzeguti, anagramma di Giuseppe Bottazzi) per evitare di donare i soldi della vincita al partito. E Cervi e Fernandel, entrambi coi capelli brizzolati, sono come il buon vino: invecchiando, migliorano. Seguito da Il compagno Don Camillo. Nessuna novità tra i doppiatori principali (Carlo Romano/ Don Camillo, Renzo Ricci/ Crocifisso), eccezion fatta per la voce narrante che passa da Emilio Cigoli a Sergio Fantoni.

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3 risposte a Don Camillo monsignore… ma non troppo

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