Frailty – Nessuno è al sicuro

(Frailty)

Regia di Bill Paxton

con Bill Paxton (Papà Meiks), Matthew McConaughey (Fenton Meiks), Powers Boothe (Agente Wesley Doyle), Matt O’Leary (Fenton bambino), Jeremy Sumpter (Adam bambino), Luke Askew (Sceriffo Smalls), Levi Kreis (Adam Meiks), Derk Cheetwood (Agente Hull), Melissa Crider (Becky Meiks), Alan Davidson (Brad White), Cynthia Ettinger (Cynthia Harbridge), Vincent Chase (Edward March).

PAESE: USA 2001
GENERE: Thriller
DURATA: 100’

Nel corso di una notte oscura e tempestosa l’agente federale Doyle ascolta la deposizione di Fenton Meiks, giovane strambo che gli racconta come, vent’anni prima, lui e il fratellino divennero complici del padre che uccideva i peccatori perché gliel’aveva ordinato Dio. Fenton sostiene che il fratello Adam abbia seguito le orme del padre, ma l’agente è scettico sulla sua storia. Colpo di scena finale e tragico epilogo.

Scritto da Brent Hanley, il primo film diretto dall’attore Paxton è un thriller d’atmosfera riuscito che si distanzia, per temi, pessimismo e stile, dalla maggioranza dei prodotti hollywoodiani coevi. Senza mai tralasciare una certa ironia di fondo, Paxton mette in scena l’allegoria di un Paese malato cui piace nascondere sotto un’apparente perbenismo le sue colpe più oscure. “Esplora l’ambivalenza del sacro e le ossessioni dell’America puritana” (Mereghetti), e lo fa contemplando le contraddizioni di un Texas rurale e paludoso che pare una succursale dell’inferno tanto è spietato. Come thriller è ineccepibile e originale (ritmi lenti e dilatati rari per il genere, violenza fuori campo ma tangibile nelle espressioni di chi la compie), come metafora dei tempi centra i punti che si prefigge e lascia sconsolati (memorabile l’ultima inquadratura). Paxton dirige con stile classico ed elegante, ma l’apparente invisibilità della sua regia nasconde una concezione molto intelligente del cinema. Lo dimostra l’innovativo uso dei flashback: alcuni riportano eventi fasulli, altri giocano in modo originale con la soggettività di ciò che viene narrato, altri ancora sono costruiti come scatole cinesi che contengono ricordi sparsi di più di un personaggio. Qualcuno ha scritto che così facendo inganna lo spettatore, ma è difficile negare il fascino dell’operazione, senza dimenticare che sviando chi guarda Paxton riesce a costruire una suspense invidiabile che tiene sulle spine fino all’epilogo.

La sorpresona finale costringe comunque ad una seconda visione: solo così si possono notare tutti i dettagli geniali che, per forza di cose, sfuggivano alla prima. I demeriti – al di là di una perdonabile ripetitività narrativa e dei troppo facili riferimenti biblici – sono tutti quanti nell’ambiguo finale in cui si scopre che tutti coloro che vennero uccisi erano in qualche modo “cattive” persone (assassini, stupratori, maniaci): quindi meritavano di morire? E il fatto che l’assassino sapesse chi “pescare” non suggerisce che forse si trattava davvero di una missione per conto di Dio? A questo proposito, ridicolo il fatto che il volto di Fenton non si veda nelle telecamere di sorveglianza, come se una forza superiore lo rendesse invisibile come sosteneva suo padre. Sembra che la sceneggiatura, ad un certo punto, voglia inserire per forza elementi sovrannaturali che rifiutino la certezza e instillino il dubbio. Buona idea, ma così è un po’ troppo. I molteplici colpi di scena finali, pur esagerati, sono invece coerenti alla trama e sbalordiscono per davvero. Così come le perfette prove attoriali del regista/interprete e del giovane O’Leary. Preziosa fotografia, nebulosa e buia, del veterano Bill Butler. E bravo Paxton, esordiente di talento. Da vedere.

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