Regia di Spike Lee
con Harvey Keitel (Rocco Klein), John Turturro (Larry Mazilli), Delroy Lindo (Rodney Little), Mekhi Phifer (Ronald “Strike” Dunham), Isaiah Washington (Victor Dunham), Keith David (Andre The Giant), Regina Taylor (Iris Jeeter), Pee Wee Love (Tyrone), Michael Imperioli (Jo-Jo), Sticky Fingaz (Scientific), Tom Byrd (Errol Barnes), Paul Calderon (Jesus), Spike Lee (Chucky).
PAESE: USA 1995
GENERE: Drammatico
DURATA: 129’
Brooklyn (New York). L’onesto padre di famiglia Victor finisce in carcere, reo confesso, per l’omicidio di un piccolo spacciatore. Il tenente Rocco Klein, della squadra omicidi, crede che l’assassino sia in realtà il fratello minore di Victor, Strike, che di mestiere fa il “clocker” (pusher disponibile 24 ore al giorno).
Ottavo film di Spike Lee, da lui sceneggiato con Richard Price, autore del romanzo omonimo. Un affresco realistico e genuino che racconta la comunità afroamericana di New York. Ha come perno la storia di un ventenne “perduto” che, come molti suoi coetanei, riversa nella droga e nella criminalità la rabbia verso una società malata da cui è impossibile fuggire. Con un occhio antropologico che rifiuta qualsiasi catarsi (molto labile è il confine tra “buoni” e “cattivi”), Lee costruisce un film corale che sfrutta tutte le possibilità espressive offerte da una narrazione ritmata (anche in senso musicale) che si basa su più punti di vista. Lontano dal ritenersi un profeta o un vate della cultura cui appartiene, il regista di colore più famoso del mondo sceglie di raccontare una storia “quotidiana” come tante (non per nulla il film possiede una struttura “circolare”, e finisce con un fatto simile a quello che lo apre) che però punta alla parabola universale. Film contro la droga, film sulla droga, resta ancora oggi uno degli esempi più riusciti del nuovo cinema impegnato americano. Non c’è epica, non ci sono eroi (nemmeno tra i buoni): ci sono solo un manipolo di poveracci che sguazzano nella miseria per tirare a campare; magari anche inseguendo l’effimero giro d’affari che solo la droga, oggi, può garantire. Per quanto riguarda la messa in scena c’è qualche virtuosismo gratuito di troppo (il volto di Klein proiettato nell’occhio di Victor), ma le sperimentazioni fotografiche di Malik Hassan Sayeed (che accentua i contrasti e deforma, imbiancandole, le luci) sono coerenti con il clima che si respira lungo tutta la storia, e la sceneggiatura, anche se un pò ridondante, è ben congegnata. Memorabile, per intensità ed estro visionario, la scena in cui Rocco “guida” i ricordi di Tyrone inserendosi dentro di essi. Molte differenze rispetto al romanzo, dovute alla testardaggine di Lee che voleva rendere la storia assolutamente “personale”. Prodotto da Martin Scorsese – che in un primo momento doveva dirigerlo – fu un fiasco clamoroso al botteghino ma si risollevò grazie all’home video. Memorabili interpretazioni di Keitel e Turturro, ma anche il giovanissimo Phifer è da tenere d’occhio. Il cameo di Lee (l’operaio che appare all’inizio e alla fine del film) è un delizioso “scherzo” meta cinematografico. Musiche di Terence Blanchard. Le foto di omicidi del ghetto che accompagnano i titoli di testa, pur ricalcate su scatti reali, sono state ricostruite ex novo con attori professionisti per rispetto ai parenti delle vittime.