Hugo Cabret

(Hugo)

Regia di Martin Scorsese

con Asa Butterfield (Hugo Cabret), Chloë Moretz (Isabelle), Ben Kingsley (George Méliès), Sacha Baron Cohen (Ispettore Gustav), Jude Law (Signor Cabret), Christopher Lee (Monsieur Labisse), Helen McCrory (Mama Jeanne), Michael Stuhlbarg (René Tabard), Emily Mortimer (Lisette), Ray Winstone (Zio Claude), Frances de la Tour (Madame Emile), Richard Griffiths (Monsieur Frick).

PAESE: USA 2011
GENERE: Avventura
DURATA: 127’

Hugo Cabret è un orfano che vive segretamente tra le mura della stazione ferroviaria di Montparnasse nella Parigi degli anni ’30. L’incontro con un bizzarro costruttore di giocattoli – che si rivela essere il regista decaduto George Méliès, inventore dei primi effetti speciali su celluloide – porta il ragazzo a fare i conti col proprio passato. Con l’aiuto della nipotina di Méliès, Hugo scoprirà i segreti del padre defunto e scoprirà la magia onirica della settima arte…

Tratto dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (2007) di Brian Selznick, adattato per lo schermo da John Logan, il 22esimo film di Scorsese rappresenta un bizzarro passo indietro rispetto alla sua personale poetica. Hugo Cabret non è un film d’autore: è un blockbuster in computer grafica girato da un grande cineasta che mette da parte per un attimo le sue ricerche – stilistiche e tematiche – per seguire la moda del momento. Della sua autorialità restano soltanto le riflessioni spassionate sulla storia del cinema, e non a caso le sequenze più riuscite sono quelle prettamente riferite al potere della celluloide. Il flashback in cui Méliès racconta la propria vita artistica è assolutamente strepitoso, e rappresenta uno degli omaggi più riusciti all’inventore del fantastico cinematografico. E’ il resto che non funziona: la sceneggiatura è banalotta e l’intreccio, assai prevedibile, quanto di più convenzionalmente hollywoodiano ci si potrebbe aspettare; lo stile registico è di maniera, e i mirabolanti e vorticosi movimenti di macchina, liberissima di spostarsi grazie agli scenari digitali, sono già stati visti altrove e meglio (ad esempio, nel Christmas Caroldi Zemeckis); il lieto fine è un po’ troppo consolatorio, specialmente se si pensa che Méliès morì povero e dimenticato da molti; il gusto scenografico, dai colori saturati e dai toni fiabeschi, pur molto piacevole alla vista, appare un po’ troppo debitore dell’ultimo Tim Burton (si pensi ad esempio a Big Fish). Il film appare dunque un po’ come un’occasione sprecata, come un tentativo (velleitario) di ringiovanire una carriera che, in realtà, non ha mai dovuto niente a nessuno: pubblico, critica, mode.

La confezione, comunque, è impeccabile (scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, fotografia di Robert Richardson, montaggio di Thelma Schoonmaker, musiche di Howard Shore), e sicuramente ai ragazzini piacerà molto. L’uso degli effetti speciali (un tripudio) è meno gratuito che in molti film coevi, ma arrivare a dire che Scorsese omaggia Méliès utilizzandoli in modo artigianale è forse un po’ troppo. Nel folto cast di attori meglio gli adulti dei ragazzini, specialmente Kingsley, l’ottantanovenne Christopher Lee e Baron Cohen, quest’ultimo incarnazione di quella comicità slapstick (quella di Chaplin, Keaton, Lloyd) che pian piano è andata estinguendosi. Ben cinque Oscar tecnici: fotografia, scenografia, sonoro, montaggio sonoro e effetti speciali (questi ultimi esaltati da un lussuoso 3D). Il riscatto finale di Méliès che si vede nel film avvenne davvero, grazie all’interessamento che dei pittori surrealisti che su di lui organizzarono la prima retrospettiva cinematografica della storia.

“Laddove serviva il cuore, la passione per il racconto, per i personaggi, Scorsese mostra la goffaggine di un nonno che solo oggi, dopo tanti anni, deve raccontare per la prima volta una storia ai suoi nipoti”. (Federico Gironi). Non è un brutto film, ma c’erano tutte le premesse per aspettarsi qualcosa in più.

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