“L’horror non sta negli effetti speciali, l’horror sta nell’anima”

Intervista a Dardano Sacchetti

Quattro chiacchiere con uno degli sceneggiatori più prolifici del cinema italiano, che inventò Il gatto a 9 code e il Monnezza.

Il primo film a cui ha collaborato è Il gatto a nove code, uno dei primi grandi successi di Dario Argento. Com’è avvenuto l’incontro col nostro più famoso regista di horror? Com’è stato lavorare con lui?

De “Il gatto a nove code” ho scritto un soggetto di sette pagine su una mia idea. L’incontro con Dario è stato casuale, si era anche in un’altra epoca: il mitico 68, i rapporti erano più semplici, più facili, era l’epoca di Easy rider, dei figli dei fiori, di Bob Dylan, di Woodstock, ecc… era molto più facile incontrarsi e stare insieme. Il cinema poi era una grande famiglia, quasi come un unico enorme circo. Tu andavi a Cinecittà e al bar incontravi Fellini e ti potevi mettere a chiacchierare con lui mentre prendevi il caffè. Gli potevi anche dire “vorrei lavorare con lei” e magari lui su due piedi ti prendeva come assistente non pagato. Era tutto più semplice. Lavorare con Dario allora, data anche l’atmosfera di cui dicevo, era allegro e facile. Come in un ping pong ci si scambiavano palline veloci, ovvero idee, sapendo che i produttori le avrebbero rispettate, quindi potevi scrivere qualsiasi cosa ti piacesse. Una stagione d’oro, durata pochissimo perchè dalla bomba di piazza Fontana iniziano gli anni di piombo e l’atmosfera cambia in tutto il paese. Sparisce l’allegria, la facilità di rapporti e tutto diviene più difficile.

Dopo il fortunato esordio con Argento, ha scritto molti dei cosiddetti “poliziotteschi all’italiana”. Quale pensa che fosse il motivo del loro enorme successo? Questioni sociali legate al clima rovente degli anni ’70 o semplice desiderio, da parte del pubblico, di gustare prodotti ispirati all’hard boiled americano?

I poliziotteschi – termine che odio perchè coniato dalla critica peggiore per svillaneggiare i film (esattamente come “spaghetti-western”) – avevano preso il posto dei film western, i quali a loro volta avevano preso il posto dei peplum e dei film d’avventura, tipo Angelica, o degli ultimi film di guerra. In quegli anni era ancora molto viva la richiesta di “action movie”. Era un modo di evasione semplice ed ingenuo per uno spettatore che non era ancora inchiodato davanti alla televisione, non girava il mondo, non parlava le lingue e aveva come unico svago lo stadio con la partita di pallone, se non addirittura la trasmissione radio in un mitico bar dello sport allora molto in voga. Questa era l’Italia in cui si consumavano quei film. Certo c’erano continui riferimenti alla cronaca nera, quindi all’attualità. Si cercava di cavalcare l’emozione del momento. In certi casi c’è anche stata una vaga ispirazione ideologica. Ma la lettura “sociologica” del poliziottesco è venuta dopo ed è stata fatta negativamente e a posteriori per disinnescare un tipo di cinema che non piaceva ne ai giovani autori emergenti (stava sparendo la figura del regista di mestiere, quello capace di fare di tutto) ne a certe forze politiche che hanno sempre pensato al cinema come un forte veicolo di propaganda: del resto ci credevano sia Mussolini che Lenin.

Nel 1976 inventò il celebre personaggio del Monnezza. Le è piaciuto il remake dei Vanzina con Claudio Amendola?

Il remake era l’atto d’amore di un figlio nei confronti di un padre (Claudio Amendola era figlio di Ferruccio, il re dei doppiatori italiani per anni voce di Tomas Milian, ndr.) e soprattutto una rilettura da parte della coppia vincente del cinema comico italiano di un vero fenomeno, di una maschera degna di stare alla pari con Arlecchino o Pulcinella, tanto che è stato inserito nella enciclopedia Treccani sotto questa voce: maschera moderna italiana.

Il film, spostando l’asse, in quanto il figlio del Monnezza è “normale”, viene meno alla trave che sorregge tutto, ovvero la maschera. Direi che nel loro pur lodevole tentativo, i Vanzina sono stati superficiali e non hanno capito con che cosa avevano a che fare.

Suoi sono soggetto e sceneggiatura de I guerrieri del Bronx. Nel film si possono trovare alcuni riferimenti all’opera di John Carpenter. È un regista che le piace? Cosa pensa dei suoi film?

Carpenter è un buon regista, i suoi film mi piacciono abbastanza, non lo reputo un maestro alla altezza di altri anche se in un paio di occasioni ha sfiorato il film-cult.

Tra le sue collaborazioni più importanti vi sono certamente quelle con Fulci e Bava. Com’era lavorare con loro?

Personalmente non ho mai lavorato a stretto contatto di gomito coi registi. La cosa vale anche per Mario Bava e Lucio Fulci, tranne che per due film: Reazione a Catena e Sette note in nero. Di solito io scrivevo i miei soggetti, scrivevo i miei copioni, poi li passavo ai produttori che organizzavano i film. Coi registi si facevano piccole riunioni per adattare il copione al budget e alle location. I miei copioni erano molto dettagliati, non lasciavo spazio a fantasie o improvvisazioni. Per questo il mio rapporto coi registi è stato molto tempestoso. Ricordo con grande simpatia l’ironia di Mario Bava e il suo disincanto. Con Lucio il rapporto è stato più conflittuale. Lui veniva dalla commedia, tecnicamente era bravissimo, ma ha fatto fatica a calarsi nella realtà dell’horror. Poi, quando ne ha capito i meccanismi, ci ha sguazzato felicemente.

Che direzione pensa che stia prendendo il genere horror al giorno d’oggi? Ci si guarda intorno e si vedono soltanto remake. Secondo lei è un genere finito? (nel senso che non ci sono più idee originali).

Cazzate, L’horror non finirà mai perchè ha a che vedere con la realtà che si vive e mai come in questo momento si vive una realtà di crisi sociale, economica e di valori, quindi un terreno ottimale per l’horror in quanto tale. Basta vedere un tg o scorrere i titoli di un giornale. Certo in Italia è sparito il cinema, non si fanno più film: tanto è vero che chiudono Cinecittà e ci fanno degli alberghi.

Per il resto deve passare la sbornia, questa sì mefitica ed esiziale, degli effetti speciali. L’horror non sta negli effetti speciali, chiunque li faccia, l’horror sta nell’anima. Bisogna tornare a raccontare storie che mettano a nudo l’oscurità dell’animo umano.

Quali sono i suoi progetti per il futuro? Ha qualche nuovo film in cantiere?

Progetti tanti, possibilità che questi si realizzino abbastanza scarse. E’ un momento difficile: la crisi economica, la tv con le sue offerte. La fascinazione che oggi i giovani hanno per internet e Youtube sta creando problemi al cinema tradizionale. Credo che quel tipo di cinema che io ho fatto in tempo a vedere sia destinato all’estinzione, ma verrà fuori un altro modo di raccontare per immagini, sfruttando anche le nuove tecnologie.

Cosa consiglia ai giovani che vogliono avvicinarsi all’arte della sceneggiatura?

Di cambiare mestiere. Oggi non c’è più rispetto per chi scrive. Chi scriveva copioni una volta era il vero deus ex machina, l’autore del film, l’unico e vero “creatore”. Le scuole di sceneggiatura e l’industrializzazione imposta dai network americani per avere materiali da serializzare (la famigerate serie da 12 stagioni) hanno reso questo lavoro una cosa impiegatizia. Anche in Italia ci sono produzioni che obbligano gli sceneggiatori ad andare in ufficio dalle 9 alle 17 e lavorare in stanzoni. Se si esce fuori dalla tv ci si scontra con la figura del regista autore che non vuole più accanto a sé uno sceneggiatore libero, bensì uno sceneggiatore gregario, uno yesman, il che significa che uno sceneggiatore viene scelto non per le sue qualità ma per le sue capacità di adattabilità ed obbedienza.

Cosa vorrebbe dire ai lettori cinedipendenti di nehovistecose?

“Mala tempora currunt”, ma abbiate fede. Questa crisi spazzerà via tutto e ci sarà una nuova fioritura. Tenete duro.

20/08/2012

(Nehovistecose ringrazia Dardano Sacchetti per la gentile disponibilità e Krocodylus per l’aiuto nel trovare i contatti giusti)
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