Ombre rosse

(Stagecoach)

Regia di John Ford

con Claire Trevor (Dallas), John Wayne (Ringo Kid), Andy Devine (Buck), John Carradine (Hatfield), Thomas Mitchell (dottor Josiah Boone), Louise Platt (Lucia Mallory), George Bancroft (maresciallo Charlie Wilcox), Donald Meek (Samuel Peacock), Berton Churchill (Henry Gatewood), Tim Holt (Tenente Blanchard), Tom Tyler (Luke Plummer).

PAESE: USA 1939
GENERE: Western
DURATA: 96’

Diligenza con equipaggio piuttosto eterogeneo (una prostituta, un cowboy ricercato, un medico alcolizzato, una signora incinta, un giocatore d’azzardo, un venditore di liquori, un losco banchiere) parte da Tonto per raggiungere Lordsburg, New Mexico. Attaccati dai sanguinari Apaches, riusciranno a mettersi in salvo soltanto restando uniti e dimenticando per una volta i loro pregiudizi verso il diverso…

Scritto da Dudley Nichols partendo dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox – a sua volta ispirato a Boule de Suif di Guy de Maupassant – è probabilmente uno dei western più noti della storia del cinema, considerato dalla maggior parte dei critici (specialmente italiani) il miglior film di Ford e il miglior western di sempre. È di certo il primo western “moderno”, caposaldo di un genere che sembrava finito (o comunque relegato alla serie B) e che invece dimostrò negli anni a venire tutta la sua carica tematica ed espressiva. Ford abbandona l’epica quasi mitologica dei primi film sulla frontiera e affianca all’azione la psicologia, punta ad un realismo poetico che proietta l’uomo e la sua quotidianità all’interno di grandi spazi selvaggi, riflette sul ruolo della violenza e tenta di comprenderne le ragioni “arcaiche”. Il personaggio principale è ancora infallibile e giusto (è vero che Ringo è un criminale, ma è stato carcerato ingiustamente), ma il suo volto e le sue azioni sono più umane che mai, e il suo ruolo all’interno di quella società civile che lui stesso ha contribuito a creare viene messo continuamente in discussione. La diligenza, col suo campionario di variegata umanità, diventa una sorta di calderone di simboli che garantisce al film una serie infinita di letture diverse: metafora del new deal rooseveletiano (le barriere di classe vengono abbattute per combattere un nemico comune), parabola esistenziale (solo stando uniti si può vincere), ma anche critica all’ambiguità della società americana (i notabili – la signora Mallory, il giocatore Hatfield, il banchiere Gatewood – sono arroganti e talvolta disonesti, i cosiddetti reietti invece – il malvivente Ringo, la prostituta Dallas, il dottore ubriacone – si rivelano portatori di una moralità cristallina). Il viaggio della diligenza riflette l’avanzamento della civiltà all’interno della barbarie (rappresentata dal deserto e dagli indiani), e delinea con precisione quel contrasto tra tame e wild, tra “addomesticato” e “selvaggio” su cui si baserà praticamente tutto il western venuto dopo. Ford usa il fioretto dell’ironia, non disdegnando alcuni siparietti satirici che centrano il bersaglio (si veda con quale disprezzo tratta le “donne della lega della moralità” che cacciano Dallas perché fa la prostituta).

I teatri di posa e i piccoli villaggi ricostruiti in studio lasciano il posto alla suggestione naturale della sconfinata Monument Valley, che da questo film in poi diverrà la scenografia di centinaia di western. Una scelta visiva che, oltre ad accentuare le basi storico-realistiche del racconto, dona al cinema dell’epopea una dinamicità tutta nuova, assente fino a questo momento. Film lineare ma dalla drammaturgia estremamente complessa (ci sono due linee narrative che si accavallano: il viaggio della diligenza e la vendetta di Ringo), capace di fondere abilmente toni e registri molto diversi (dal melò alla commedia, dall’action movie al film romantico), Ombre rosse regala, grazie ad una regia compatta ed elegante, sequenze a dir poco memorabili: gli indiani che seguono la diligenza (in cui la macchina da presa venne montata su un’auto che correva a 60 km orari di fianco ai cavalli), la celeberrima, fulminea panoramica di 90 gradi che passa dalla diligenza agli indiani minacciosi appostati sulle rocce, il superbo duello finale risolto fuori campo per accrescere la suspense. Qualche elemento un po’ datato non manca (il finale in cui Ringo “va, li ammazza e torna”), e il rapporto tra uomo bianco e indiani non è ancora contraddistinto da quella ricchezza di sfaccettature che arriverà nei film successivi, ma senza le innovazioni stilistiche e formali introdotte da Ombre rosse il western sarebbe probabilmente scomparso nel giro di una decina d’anni. John Wayne, che venne scelto al posto di Gary Cooper perché costava meno, divenne grazie a questo film il cowboy cinematografico per eccellenza. Anche se il personaggio più affascinante (ed innovativo) del film resta senza dubbio la prostituta Dallas, vero fulcro della storia: non a caso, quando il film uscì (e quindi Wayne non era ancora famoso), il nome della Trevor appariva per primo sulle locandine. Vinse due premi Oscar, entrambi assolutamente meritati: miglior attore non protagonista a Thomas Mitchell (il dottore alcolizzato) e miglior colonna sonora a Richard Hageman, John Leipold e Leo Shuken (che rielaborarono ben 17 canti popolari americani). L’avrebbe meritato anche la fotografia di Bert Glennon, capace di creare un bianco e nero raffinato e fortemente suggestivo. Il titolo originale significa “diligenza”. Stranamente, mise d’accordo pubblico e critica. Un grande classico.

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