The Bridge – Il ponte dei suicidi

(The Bridge)

Regia di Eric Steel

PAESE: Gran Bretagna, USA 2006
GENERE: Documentario
DURATA: 93’

Dal giorno della sua inaugurazione nell’aprile del 1937, il Golden Gate Bridge (colosso d’acciaio che attraversa la baia di San Francisco) ha attirato una serie incredibile di suicidi. Si dice che vi abbiano trovato la morte circa 1300 persone. Tra gennaio e dicembre 2004, attraverso l’ausilio di parecchie telecamere sistemate nei pressi del ponte, il regista Eric Steel ha ripreso ben 23 “salti” su 24. Nel 2005 ha rintracciato parenti e amici delle vittime e ne ha fatto un film. Traendo ispirazione da un articolo di Tad Friend apparso sul New Yorker nel 2003 (dal titolo “Jumpers”, saltatori), Steel conduce la sua personale inchiesta sulle ragioni che portano così tante persone a cercare la morte proprio sul Golden Gate, affascinante ponte sospeso annoverato dal 2005 tra le meraviglie del mondo moderno. È un film atroce, quasi insostenibile. La critica lo ha accusato di voyeurismo, immoralità, spietato dolorismo. Difficile difenderlo. Il concetto di base, che secondo alcuni è lo stesso dello snuff movie, è già di per se deprecabile: riprendere la morte “vera” non può essere sintomo di libertà creativa (o informativa), specialmente se si pensa che i malcapitati non ne sanno niente e che il regista cerca VOLUTAMENTE i suicidi. Come se non bastasse, Steel utilizza i più spregevoli mezzi mediatici da “tv del dolore”: raccoglie testimonianze toccanti indugiando su pianti e sensi di colpa, sottolinea la durezza delle immagini con una musica fortemente drammatica (di Alex Heffes), crea un’irrispettosa suspense che mette lo spettatore nella posizione di “attendere il salto”, come nel caso di quella vittima che viene continuamente mostrata nel suo girovagare in attesa che si tuffi di sotto. Cosa che, prontamente, avviene in quello che si potrebbe definire un “macabro e ricercato climax finale”.

Ed è proprio questa scelta a tradire la malafede di Steel e dei suoi collaboratori; per difendersi hanno infatti sostenuto di aver avvertito la polizia ogni qualvolta notassero comportamenti sospetti, salvando addirittura delle vite: com’è possibile, allora, che la vittima di cui sopra, ripresa così a lungo e in comportamenti non certo “normali”, abbia avuto il tempo di gettarsi indisturbata? L’unica nota positiva del film, oltre ad alcune immagini del ponte davvero suggestive, è il fatto che lasci aperte diverse questioni “morali”: perché la popolazione e le autorità continuano a rifiutare una “barriera anti- suicidi”? Certo, chi vuole compiere il gesto potrebbe andare a farlo in un altro posto, ma questa può essere una scusante per rifiutarsi di prevenire? Osservare senza agire (cosa che fanno sia i passanti che le telecamere di Steel, entrambi indifferenti) è sintomo di menefreghismo? O è giusto permettere che le persone scelgano per la propria vita senza influenze esterne? Secondo noi la risposta è la prima, ma alcune testimonianze dei parenti delle vittime (e quindi il film) farebbero propendere per la seconda; il problema è che così il messaggio è un qualcosa di agghiacciante: il suicidio come gesto supremo di libertà. Un film brutto, poco sincero, da vedere solo come fonte di dibattito.

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