Omaggio a The Walking Dead – Perché diavolo ci piace così tanto?

Iniziare un articolo che omaggia qualcosa dicendo che in quel qualcosa non c’è, a livello tematico, nulla di nuovo, pare un controsenso. Eppure è proprio così. The Walking Dead, pluripremiata e seguitissima serie tv della AMC, tratta dai fumetti di Robert Kirkman e ideata dal regista Frank Darabont, è una serie in cui non viene presentato nulla di nuovo, almeno per quanto riguarda i temi che vengono trattati. Non è soltanto un opinione: ci sono ben sei film, diretti da un tizio che si chiama George A. Romero, a dimostrarlo. La società che si sfalda e diventa disumana, il dover temere più i vivi che i morti (gli zombi), l’incontro con personaggi scellerati che cavalcano la paura per assumere il potere (vedi il Governatore), l’impossibilità di sentirsi al sicuro, la metafora “politica” su un mondo che “cannibale” lo è sempre stato, sono tutti elementi di cui Romero parla dal 1968, quando uscì il primo capolavoro dell’esalogia sui morti viventi, La notte dei morti viventi. Per Romero l’apocalisse zombi è una scusa per parlare del dualismo umano bene/male e per sottolineare che l’umanità, forse, non merita di essere salvata. Parlando della rinascita dei morti, parla della morte (morale) dei vivi. Proprio come The Walking Dead. Non a caso, il fumetto prende spunto proprio dai film di Romero. Il cerchio, dunque, si chiude. Ma allora, se davvero questa serie televisiva non racconta nulla di nuovo, com’è possibile che sia così seguita e che continui a rastrellare premi e recensioni positive anche da parte della critica più pignola? Semplice: perché è una serie televisiva, non un film. Mi spiego meglio.

The Walking Dead

Per la prima volta nella storia l’apocalisse zombi viene raccontata dilatando i tempi (la serie tv è per forza di cose “dilatazione temporale”). Se nei film di Romero le psicologie erano sacrificate all’azione e al potere della metafora, in TWD la lunga durata della storia permette a Darabont e soci di lasciare i mostri sullo sfondo e di concentrarsi maggiormente sulle psicologie. Non c’è un solo personaggio in The Walking Dead che sia “sfocato”. E questo, di per se, è già un fattore che coinvolge profondamente. I film di Romero sono film sull’uomo, TWD è una serie sugli uomini, su questo gruppo di uomini. I personaggi, coi loro difetti, le loro paure, i loro atti di coraggio, contano esattamente come la storia e la metafora “politica” nascosta alle sua spalle. Inoltre, la storia “continuativa” e la messa in scena molto cinematografica e molto poco televisiva (anche se stagione 2 e stagione 3 rispetto alla prima hanno iniziato a tener conto di alcuni fattori molto “televisivi”, come la costruzione a due/tre climax per episodio che anticipano l’interruzione pubblicitaria), ne fanno un prodotto curato anche per gli spettatori più “colti” (cinematografici?) che affascina e spinge perennemente ad attendere con impazienza l’episodio che verrà. Un’altra scelta azzeccata: l’ambientazione nel profondo Sud negli Stati Uniti, calderone di contraddizioni che da vita ad una serie di riflessioni affascinanti (si veda il personaggio di Merle, vero e proprio redneck americano) e rivela un sottotesto da “western post-apocalittico” assolutamente godibile.

Steven Yeun, Norman Reedus e Andrew Lincoln in una pausa sul set di The Walking Dead.

Steven Yeun, Norman Reedus e Andrew Lincoln in una pausa sul set di The Walking Dead.

Ci sono guizzi ironici, c’è un personaggio protagonista “morale” che combatte per non perdere la propria “moralità” (e il fatto che sia un ex tutore dell’ordine è emblematico), ci sono personaggi di contorno efficaci e affascinanti (chi ancora non ama Daryl Dixon alzi la mano!), ci sono splatter e gore al punto giusto, c’è una colonna sonora azzeccata e suggestiva. C’è la passione del raccontare, sempre più rara nelle serie odierne che, talvolta, vanno avanti per inerzia riproponendo vecchie idee e colmando i vuoti con noiosi episodi- riempitivo. Giunti alla fine della terza stagione e pronti per la quarta, i creatori di TWD devono giocarsi bene le proprie carte: in tutte e tre le stagioni abbiamo visto i nostri trovare un nido sicuro e per poi perderlo alla fine, vuoi per gli zombi, vuoi per la stupidità umana; è importante che questa struttura non diventi fattore determinante di tutte le stagioni a venire, altrimenti la serie inizierà a girare su se stessa e a perdere punti. Così come è importante che si evitino gli “episodi-riempitivo”, quelli in cui non succede NULLA e servono soltanto a rinviare eternamente la battaglia finale col cattivo di turno (in questa terza stagione ce n’è più di uno, purtroppo). Certo, è difficile trovare strutture narrative differenti, ma se lo schema casa/attacco/di nuovo in viaggio pagava nei film di Romero (in quanto autoconclusi), in una serie tv rischia di cadere nella ripetizione e nella ridondanza. Quindi, Darabont e soci, occhio! Quando non saprete più come proseguire, fermatevi. Meglio fermarsi alla quarta stagione sulla cresta dell’onda che finire alle decima senza uno straccio di idea e con l’uno per cento di share. È una serie in grande stile, fatela finire come merita.

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3 risposte a Omaggio a The Walking Dead – Perché diavolo ci piace così tanto?

  1. emilio scrive:

    Lo farai un omaggio a Breaking Bad? Se lo merita tutto (sempre che ti piaccia, ma lo do per scontato). 🙂

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