Lost in Translation – L’amore tradotto

(Lost in Translation)Poster

Regia di Sofia Coppola

con Bill Murray (Bob Harris), Scarlett Johansson (Charlotte), Giovanni Ribisi (John), Anna Faris (Kelly), Fumihiro Hayashi (Charlie Brown), Akiko Takeshita (Ms. Kawasaki), François Du Bois (il pianista), Takashi Fujii (il presentatore TV), Kunichi Nomura (Kun), Akira [Ryōhei Kurosawa] (Hans).

PAESE: USA 2003
GENERE: Commedia sentimentale
DURATA: 102’

Breve incontro a Tokyo tra il maturo Bob Harris, attore in declino costretto a girare la pubblicità di un whiskey, e la giovane Charlotte, fresca dalle nozze con un fotografo che la trascura. Tra i due, insonni e tormentati, nasce qualcosa di più di un’amicizia…

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Ideato, scritto, prodotto e diretto (in 27 giorni) dalla trentaduenne Sofia Coppola, figlia di Francis Ford, che in Giappone c’è stata per parecchio tempo. È un film impressionista e malinconico che riflette sullo scorrere del tempo, sull’indecifrabilità dei rapporti umani e sulla solitudine dell’individuo nella società odierna. La scelta di ambientare a Tokyo questo tenero “incontro di solitudini” si rivela azzeccata: considerando anche la sua conformazione abitativa (tanti e tutti vicini), la capitale giapponese incarna alla perfezione il paradosso della metropoli, in cui tutti vivono a stretto contatto (nel caso di Tokyo si potrebbe quasi dire “ammassati”) ma non si conoscono, non parlano mai per davvero, cercano invano di convincersi di non essere soli. Il film mette a confronto due diversi modi di vivere che sono anche due diversi modi di “concepire l’esistenza”, e lo fa inscenando una Tokyo kitsch e fracassona che, tolte le parentesi spirituali, somiglia molto ad una Miami o a una Los Angeles. Molto divertente, qua e là poetico, è anche (e soprattutto) un film su Bill Murray, grandissimo attore che recita sempre sotto le righe, improvvisa le proprie battute, fa un umorismo minimalista che è spesso irresistibile: Bill Murray e Bob Harris, attori stanchi e disillusi ma ancora capaci di mettersi in gioco con ironia, sono la stessa, identica persona.

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Molti critici hanno definito lo stile della Coppola uno stile “ancora non definito”, senza riconoscerle che il suo resta pur sempre “uno stile”, elemento che spessissimo manca ai film americani odierni. Anche per questo è un film d’autore, imperniato su una regia dinamica ma riflessiva, capace di registrare i silenzi, gli sguardi, l’avanzar del tempo. E di fare della città di Tokyo un personaggio importante, forse vero protagonista del film. Non mancano parentesi folcloristiche di maniera e abusati luoghi comuni (i giapponesi sono tutti bassi, mettono la L al posto della R e dicono trecento parole per esprimere qualsiasi breve concetto), ma resta un film assai emozionante, sostenuto da ottimi contributi tecnici – come la fotografia “spericolata” (Morandini) di Lance Acord e l’ottima colonna sonora in cui spicca Just Like Honey dei The Jesus and Mary Chain – e da ottime idee in fase di sceneggiatura. Il finale è un piccolo capolavoro che arriva diritto al cuore. Il sottotitolo italiano stravolge il senso dell’originale, letteralmente perso nella traduzione. Come quei particolari linguistici che si perdono per strada traducendo un romanzo (perché magari fanno riferimento a slang conosciuti solo nel paese di origine), la storia tra Bob e Charlotte si “perde” quando i due si separano. Come se quella storia avesse senso solo lì, solo in quel tempo, solo in quella situazione. O forse no, come suggerisce il finale aperto. Da vedere.

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