Il mucchio selvaggio

the-wild-bunch-1969-poster(The Wild Bunch)

Regia di Sam Peckinpah

con William Holden (Pike Bishop), Ernest Borgnine (Dutch), Robert Ryan (Deke Thornton), Edmond O’Brien (Sykes), Warren Oates (Lyle Gorch), Ben Johnson (Tector Gorch), Jaime Sanchez (Angelo), Emilio Fernandez (Mapache), Alfonso Arau (Lt. Herrera), Albert Dekker (Pat Herrigan), Strother Martin (Coffer), L. Q. Jones (T. C.).

PAESE: USA 1969
GENERE: Western
DURATA: 134’ (145′)

Banda di banditi accetta di rubare un carico di armi che l’esercito messicano vuole usare contro i rivoluzionari di Pancho Villa. Quando un folle generale uccide uno di loro, colpevole di essersi tenuto una cassa da offrire al proprio misero villaggio, gli altri lo vendicano dando inizio a una carneficina senza precedenti…

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Quarto film di Peckinpah, scritto con Walon Green. Uno dei western più controversi ed originali della storia del cinema, un’allegoria rabbiosa e sanguinante che mette la parola fine al periodo classico del genere: gli eroi non sono per nulla eroici, ma decisamente vecchi e stanchi (lo stesso Pike non riesce quasi più a montare in sella), il West è dominato dal sesso, dallo sporco, dall’alcol, e la cosiddetta civiltà, che ormai dovrebbe essersi formata completamente (siamo nel 1913), pare non essere mai esistita o comunque “malata”; le uniche cose su cui fare affidamento restano l’amicizia e l’onore, e poco importa se per preservarle si debba rinunciare alla propria vita. La carneficina finale, che destò scalpore per la rappresentazione barocca ed estrema della violenza (montaggio frenetico e frammentario, sangue a fiotti, cadaveri a ripetizione) ha inizio come una vendetta, ma ben presto da vita a riflessioni decisamente più profonde: è la vera faccia dell’America che viene a galla, una faccia sanguinosa e violenta che ha fatto del massacro una virtù di stile, sia essa adoperata contro gli indiani o in Vietnam. E il cinema, sembra suggerire il regista, l’ha sposata alla perfezione, mitizzando un qualcosa che non aveva nulla di mitico. Il film di Peckinpah, “romantico che nega di esserlo” (Morandini), è una denuncia alla massa e un omaggio all’individuo, che deve guardare dentro di se, e non nei dettami di una società ipocrita e corrotta, per capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Non propriamente un film morale dunque, quanto un film “etico”, ben lontano dal cinismo di Sergio Leone.

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Un film che rappresenta non soltanto la summa della poetica di Peckinpah, ma anche la vetta del suo stile “moderno” e originalissimo, fatto di ralenti e zoom, fermi immagine e musiche utilizzate in controparte, rabbiose sequenze d’azione e placide parentesi di quiete. Si dice che il film sia costruito su 3643 inquadrature; vero o meno, l’unica cosa certa è che almeno il 50% di esse si trovano nella roboante sequenza finale. Che divenne un vero e proprio cult, cui si ispirarono registi come Coppola, Cimino e Scorsese (avete presente la scena finale di Taxi Driver?). La fotografia di Lucien Ballard avrebbe meritato un’Oscar. Attori strepitosi. Malinconico, potente, crepuscolare, parla della fine del mito e dell’avvento della macchina (il generale è l’unico personaggio a possedere un automobile, e anche da essa deriva il suo potere), un discorso che il regista riprenderà nel successivo La ballata di Cable Hogue (più riuscito sul registro della commedia). Pietra miliare di un genere, è un film da non perdere.

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