Le Mans ’66 – La grande sfida

(Ford v Ferrari)

Regia di James Mangold

con Matt Damon (Carroll Shelby), Christian Bale (Ken Miles), Caitriona Balfe (Mollie Miles), Joe Bernthal (Lee Iacocca), Josh Lucas (Leo Beebe), Noah Jupe (Peter Miles), Tracy Letts (Henry Ford II), Remo Girone (Enzo Ferrari), Francesco Bauco (Lorenzo Bandini), Ray McKinnon (Phil Remington), JJ Field (Roy Lunn), Corrado Invernizzi (Franco Gozzi).

PAESE: USA 2019
GENERE: Sportivo
DURATA: 152′

Come, nel 1966, l’americana Ford riuscì a soffiare la vittoria alla 24 ore di Le Mans all’italiana Ferrari, mettendo fine a un egemonia che durava da anni. Attori principali dell’impresa furono – oltre al dispotico Henry Ford II, nipote di Henry Ford, il suo vice arrivista Leo Beebe e il leale manager Lee Iacocca – l’imprenditore e progettista d’auto Carroll Shelby (ex pilota che vinse la corsa nel 1959 a bordo di un’Aston Martin) e l’irascibile ma fortissimo pilota Ken Miles, malvisto dall’establishment della Ford ma unico uomo capace di sfruttare a pieno la potenza incontrollabile della Ford GT40 MK II, che lui stesso contribuì a mettere a punto…

Scritto dai fratelli Butterworth (Jez e John-Henry) con Jason Keller, il film racconta, con qualche libertà, la storia – vera – di una delle imprese automobilistiche più affascinanti della storia, nata sotto il segno dell’amicizia tra due addetti ai lavori, Shelby e Miles, che hanno sempre anteposto gli uomini alle logiche di mercato, mantenendo salva la dignità ma scontrandosi (talvolta irrimediabilmente) con un mondo inevitabilmente governato dai sacri dettami del capitale. Al film – costato circa 100 milioni di dollari – si possono rimproverare parecchie cose: frequente ricorso agli stereotipi hollywoodiani del selfmademan puro d’animo che si scontra con le logiche del profitto, solita rilettura del mito di Davide che batte Golia (anche se, fatturato alla mano, ci sarebbe da discutere su chi, tra Ford e Ferrari, fosse Davide e chi Golia); un punto di vista che più americano di così si muore (gli italiani sono tutti buzzurri, sleali e anche un po’ bruttini); l’attitudine non sempre premiante a ritoccare ogni inquadratura con massiccie dosi di computer grafica, anche quando oggettivamente non serviva, se non per rendere il tutto più spettacolare (come nelle scene su pista, quasi tutte girate dal vero).

Tutto vero, tutto sacrosanto, come però sono sacrosanti i suoi pregi: primo fra tutti, l’ennesima grande prova di Bale, stavolta con impagabile accento inglese, nei panni di un uomo incapace di piegarsi al compromesso, imbizzarrito e ingovernabile come l’auto che guida, che con Damon (anche lui bravissimo, alle prese con un personaggio non meno suigeneris) forma un’alchimia sostanzialmente perfetta, cui va il merito di creare le scene più divertenti ed emozionani del film; altro pregio è la solida regia di Mangold, capace di governare – lei sì – il molto materiale in maniera sempre cristallina e coerente, verosimile, nonostante i moltissimi personaggi e i moltissimi eventi che narra (dura due ore e mezza ma non c’è spazio per mezzo sbadiglio); ultimo, anche se non per importanza, l’elogio agli uomini da corsa che, mai e poi mai, potranno andare d’accordo con gi industriali, a cui non è mai interessato nulla se non il profitto. Anche se per tutta la prima parte Ferrari è raccontato come una sorta di Hitler dei motori – e quindi come uno dei secondi – lo scambio di sguardi finale tra lui e Miles (una delle scene più emozionanti del film, pur inventata di sana pianta: Ferrari non era presente a Le Mans ‘66) rivela che per il regista e per i produttori egli fosse più affine ai primi, mentre Ford era senza dubbio uno dei secondi (e infatti lui nel finale si congratula col vincitore, Ferrari si congratula col più bravo, ovvero Miles).

Un’altra grande scena – sempre assimilabile all’ottica di cui sopra – è quella in cui Shelby porta Ford a fare un giro sulla GT40 per dimostrargli che un mostro simile lo può guidare solo Miles. All’ottima ricostruzione d’epoca contribuscono non poco le musiche di Marco Beltrami e la policroma fotografia di Phedon Papamichael. Quattro nomination agli Oscar (tra le quali – imperdonabile – assente quella per Bale) ma solo due statuette, montaggio (Andrew Buckland e Michael McCusker) e montaggio sonoro (Donald Sylvester).

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