Detour – Deviazione per l’inferno

(Detour)

Regia di Edgar G. Ulmer

con Tom Neal (Al Roberts), Ann Savage (Vera), Claudia Drake (Sue Harvey), Edmund MacDonald (Charles Haskell Jr.), Tim Ryan (il proprietario della taverna), Esther Howard (Gladys, la cameriera), Pat Gleason (il camionista alla taverna), Don Brodie (negoziante di auto usate).

PAESE: USA 1945
GENERE: Noir
DURATA: 69′

Il pianista spiantato Al Roberts lascia New York per raggiungere la fidanzata cantante Sue a Los Angeles. Lungo il tragitto si fa dare un passaggio da un uomo che però muore improvvisamente e Al, convinto che darebbero la colpa a lui, si dà alla macchia e assume l’identità del morto. Ma durante la fuga si sbaglia a dare a sua volta un passaggio a una bionda, che capisce come stanno le cose e inizia a ricattarlo. Quando anche lei muore «per sbaglio», a lui non resta che riprendere a girovagare in attesa di essere arrestato.

Da un romanzo di Martin Goldsmith, anche sceneggiatore. Girato in sei giorni con un budget di appena ventimila dollari, interamente filmato in studio e tutto ambientato in interni o in auto (anch’essa ricostruita in studio, col trasparente), un noir memorabile nel quale Ulmer riesce a fare di necessità virtù costruendo, grazie alle pochissime location e a una regia rigorosa, un atmosfera opprimente e ineluttabile. Gli stereotipi del genere (la femme fatale, la fuga col malloppo, lo scambio di persona) sono prosciugati e portati all’essenza per dipingere un apologo universale sul destino ingiusto e beffardo, ma anche sull’avidità umana della quale Savage riesce a tessere una rappresentazione decisamente iconica. Tanto nello scivolare verso l’assurdo quanto nel tema dell’individuo che soccombe alla paura di non essere creduto o preso sul serio dall’autorità, si avvicina più all’opera di Kafka che ai noir contemporanei, dai quali si distacca quasi per intero. Alla creazione delle atmosfere contribuisce non poco la nebulosa fotografia di Benjamin H. Kline. Imperdibile.

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Animali notturni

(Nocturnal Animals)

Regia di Tom Ford

con Amy Adams (Susan Morrow), Jake Gyllenhaal (Edward Sheffield/Tony Hastings), Michael Shannon (detective Bobby Andes), Aaron Taylor-Johnson (Ray Marcus), Isla Fisher (Laura Hastings), Ellie Bamber (India Hastings), Armie Hammer (Hutton Morrow), Robert Aramayo (Turk), Karl Glusman (Lou), Laura Linney (Anne Sutton), Andrea Riseborough (Alessia Holt), Michael Sheen (Carlos Holt), India Menuez (Samantha Morrow), Jena Malone (Sage Ross), Kristin Bauer van Straten (Samantha van Helsing).

PAESE: USA 2016
GENERE: Drammatico
DURATA: 116′

L’affermata gallerista Susan riceve dall’ex marito Edward la bozza di un romanzo a lei dedicato, intitolato Animali notturni. Vi si narra la vicenda della famiglia Hastings, marito, moglie e figlia adolescente, che durante un viaggio notturno in auto attraverso il Texas è avvicinata da tre balordi dalle pessime intenzioni. Rapita dalla lettura, Susan ricorda i momenti della separazione da Edward e riflette sulla propria esistenza e sulle decisioni prese…

Secondo film dello stilista Ford dopo il pregevole A Single Man (2009), che questa volta adatta il complesso romanzo Tony & Susan (1993) di Austin Wright. Un crudo, complesso post-noir che diventa man mano una feroce critica anti-borghese, ambizioso nella struttura che alterna in maniera sapiente ben tre linee narrative (presente, passato e storia raccontata nel romanzo di Edward) e nelle riflessioni sul potere (anche negativo) della scrittura. I flashback sulla lovestory tra Susan e Edward sono banalotti, i simbolismi fin troppo espliciti e non manca qualche incongruenza negli sviluppi dell’intreccio, eppure Ford si conferma regista elegante e abile nel percorrere strade non convenzionali e nel creare una tensione palpabile. Basti pensare al racconto dell’odissea della famiglia Hastings, che è l’unico materiale mostrato che non appartiene alla sfera della realtà eppure assume i contorni di un incubo difficile da scordare. Bravissima la Adams, ma non gli sono da meno Gyllenhaal in due ruoli antitetici e Shannon nei panni di uno sbirro sui generis (candidato all’Oscar). Notevoli sia la colonna sonora di Abel Korzienowski che la fotografia di Seamus McGravey.

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A Single Man

(A Single Man)

Regia di Tom Ford

con Colin Firth (George Falconer), Julianne Moore (Charlotte), Nicholas Hoult (Kenny Potter), Matthew Goode (Jim), Jon Kortajarena (Carlos), Paulette Lamori (Ava), Ryan Simpkins (Jennifer Strunk), Ginnifer Goodwin (Susan Strunk), Teddy Sears (Mr. Strunk).

PAESE: USA 2009
GENERE: Drammatico
DURATA: 100′

California, 1962. Resoconto dell’ultimo giorno di vita del professore inglese omosessuale George Falconer, che ha perso la voglia di vivere dopo la morte dell’amato Jim, col quale viveva da 16 anni. Dopo aver tenuto un’ultima lezione all’università, inizia la meticolosa preparazione del proprio suicidio. Ma la sera stessa, dopo aver visto un ultima volta l’amica Charley, incontra uno dei suoi studenti e sembra cambiare idea…

Tratta dal romanzo omonimo (1964) di Christopher Isherwood, considerato una pietra miliare del movimento di liberazione gay, è l’opera prima dello stilista Ford, già direttore creativo di Gucci e Yves Saint-Laurent e dal 2005 in proprio. Film sulla solitudine, conseguenza della paura del diverso che influenza tanto gli equilibri mondiali (la storia è ambientata durante la crisi dei missili di Cuba) quanto le vite degli individui, ma anche sulla fine (forzata) di un amore e sull’unico antidoto che possa esistere, ovvero la magia e la grazia di un nuovo incontro. Anche se il destino, beffardo, è in agguato per rimescolare immediatamente – di nuovo – le carte. Con una regia elegante almeno quanto il protagonista (un memorabile Firth, doppiato in maniera impeccabile da Massimo Lopez e nominato all’Oscar), Ford avanza per associazioni tra passato e presente e racconta cosa significhi assaporare per l’ultima volta le cose del mondo, soprattutto a livello sensoriale (profumi, colori, immagini). Ne è uscito un film fin troppo formalista ma sincero, lineare eppure profondo, capace di veicolare molti significati senza diventare didattico. Menzione speciale per l’ottima Moore e per la colonna sonora incalzante e drammatica (ma non ansiogena) di Abel Korzienowski e Shigeru Umebayashi. Ma si fa notare anche la fotografia cangiante di Eduard Grau. Scritto da Ford con David Scearce. Struggente.

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Breve storia della distopia cinematografica

Cliccando sul link sottostante potrete leggere le slide e trovare diversi spunti in merito al cinema distopico. Le slide, a cura di Riccardo Poma (autore e fondatore del blog nehovistecose) sono state presentate durante il ciclo di incontri E adesso parliamo di cinema presso Informagiovani Cossato (BI), durante l’anno 2023/2024.

Breve storia della distopia cinematografica

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Di seguito, in ordine cronologico, la lista di film distopici citati nelle slide e le loro recensioni. Attenzione, non si tratta per forza di cose dei film più belli facenti parte del genere, bensì dei più rappresentativi per comprenderne le caratteristiche.

1927 Metropolis

1965 Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville

1965 La decima vittima

1966 Fahrenheit 451

1971 Arancia Meccanica

1971 L’uomo che fuggì dal futuro

1973 2022 – I sopravvissuti

1975 Anno 2000 – La corsa della morte

1975 Rollerball

1979 I viaggiatori della sera

1979 Interceptor

1981 1997: Fuga da New York

1982 Blade Runner

1984 Brazil

1987 L’implacabile

1987 Robocop

1994 Fuga da Absolom

1995 Strange Days

1995 L’esercito delle 12 scimmie

1997 Nirvana

1997 Gattaca – La porta dell’universo

1998 The Truman Show

1998 Dark City

1999 Matrix

2005 V per Vendetta

2006 I figli degli uomini

2008 Doomsday

2012 Hunger Games

2013 La notte del giudizio

2013 The Zero Theorem

2013 Elysium

2013 Snowpiercer

2015 The Lobster

2018 Ready Player One

2020 Songbird

NOTA: i seguiti dei film indicati, ove presenti, non sono stati inseriti in questa lista. Potete comunque leggerne le recensioni su nehovistecose. 

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Zamora

Regia di Neri Marcorè

con Alberto Paradossi (Walter Vismara), Neri Marcorè (Giorgio Cavazzoni), Marta Gastini (Ada), Anna Ferraioli Ravel (Elvira Vismara), Walter Leonardi (Gusperti), Giovanni Esposito (Bepi), Giovanni Storti (cavalier Tosetto), Pia Engleberth (Dolores), Antonio Catania (commendator Galbiati), Giacomo Poretti (cavalier De Carli), Giuseppe Antignati (Alvise Vismara), Pia Lanciotti (Anna Vismara).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia
DURATA: 100′

Anni sessanta. Quando la piccola ditta per cui lavora chiude, l’impacciato ragioniere Walter Vismara si trasferisce da Vigevano a Milano per lavorare alla grande azienda di Tosetto. Non sa che il titolare, maniaco del fòlber, lo vuole in squadra per la consueta partitella annuale scapoli contro ammogliati. Ma Walter di calcio non sa praticamente nulla, e così gli toccherà chiedere aiuto a un ex portiere che militò in serie A ed ora è caduto in disgrazia…

Dal romanzo omonimo di Roberto Perrone (1957-2023), adattato dallo stesso Marcorè, esordiente alla regia, con Paola Mammini, Alessandro Rossi e Maurizio Careddu, una godibile commediola all’italiana che vale soprattutto per l’ottima ricostruzione d’epoca, una Milano nottambula e fumosa in realtà scovata e ricreata a Torino (ottima fotografia di Duccio Cimatti), e per l’innegabile simpatia degli attori, alle prese con una storiella come tante che però regala ben più d’una risata. Si tratta, in fondo, di uno spassionato e nostalgico omaggio al calcio d’una volta, quando ancora non giravano i milioni e i campioni erano gente comune. L’esordiente Paradossi, pur avendo il fisico, è forse ancora un pò rigido, ma in fondo è una rigidità adatta al suo ruolo, ed è circondato da attori che divertono e si divertono: Giovanni e Giacomo (prima volta senza Aldo), le ottime Gastini e Ferraioli Ravel, Ale e Franz, lo stesso Marcorè nei panni del portiere caduto in disgrazia, il sempreverde Esposito, i membri del gruppo Il terzo segreto di Satira. E camei di Davide Ferrario (il portiere degli ammogliati) e Marino Bartoletti (il custode dello stadio). Interessante il lavoro di Marcorè sui personaggi femminili: le quattro donne più vicine a Walter (Ada, Elvira, Dolores e la signora Vismara) sono caratterizzate con grande attenzione, senza mai farle scivolare nella macchietta (cosa che invece accade ai maschietti). Musiche di Pacifico. Il titolo del film deriva dal nome di Ricardo Zamora Martínez, grande portiere spagnolo degli anni trenta. Dedicato alla memoria di Perrone, mancato durante le riprese.

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Ore 15:17 – Attacco al treno

(The 15:17 to Paris)

Regia di Clint Eastwood

con Spencer Stone (se stesso), Anthony Sadler (se stesso), Alek Skarlatos (se stesso), Judy Greer (Joyce Eskel), Jenna Fischer (Heidi Skarlatos), Thomas Lennon (preside), P.J. Byrne (Mr. Henry), Jaleel White (Garrett Walden), Heidi Sulzman (insegnante), Ray Corasani (Ayoub El-Khazzani).

PAESE: USA 2018
GENERE: Biografico
DURATA: 94′

21 agosto 2015. Sul treno Thalys 9364 in viaggio da Amsterdam a Parigi tre giovani americani (tra i quali due militari), amici sin dall’infanzia, sventano un attacco terroristico pianificato da un giovane marocchino che, armato fino ai denti, voleva fare una strage. Eastwood ci racconta le loro vite e gli eventi che li portarono ad essere quel giorno proprio su quel treno.

Dal romanzo autobiografico The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, and Three American Heroes, scritto dai tre protagonisti della vicenda con Jeffrey E. Stern e adattato da Dorothy Blyskal, un instant movie uscito appena tre anni dopo gli eventi, cosa che permette a Eastwood e alla produzione di ingaggiare come attori i reali protagonisti della vicenda senza che sembrino invecchiati (cosa che tornerà molto utile nel finale, in cui sequenze girate ex novo si mescolano alle riprese reali del conferimento della legion d’onore da parte del presidente Holland). Scelta molto furba che sottolinea, più che il bisogno di verità, lo spirito orgogliosamente reazionario del film, una vera e propria celebrazione dell’eroismo made in USA che, soprattutto all’inizio (che potremmo tranquillamente intitolare piccoli repubblicani crescono), assume gli inquietanti contorni di uno spot pro-Trump e pro-esercito. Un tempo critico verso qualsiasi tipo di guerra e di intervento armato, anche e soprattutto americano (si pensi al meraviglioso dittico Flags of Our Fathers/Lettere da Iwo Jima), Eastwood cambia definitivamente registro e gira l’ideale seguito di American Sniper (2014), evitando di porsi troppe domande e accodandosi a un certo interventismo patriottico tornato di moda negli ambienti della destra statunitense.

Ma il film stecca anche a livello formale. Come succedeva nel pregevole Sullyl’evento di cronaca su cui si basa il film ebbe una durata piuttosto ridotta, e dunque Eastwood è costretto a concentrarsi su altro, in questo caso l’infanzia dei tre protagonisti, i loro studi e, infine, la vacanza in terra europea che li portò ad essere su quel treno proprio quel giorno; il problema è che questo altro è di una banalità sconcertante, coi bulletti a scuola che deridono (giustamente?) il trio di giovani fanatici delle armi, il desiderio di Spencer di farcela nonostante tutti gli dicano di mollare (è l’american dream, bellezza), il resoconto della vacanzina europea del trio (con cartoline da Roma, Venezia, Berlino e infine Amsterdam) con tanto di richiamo al destino con frasi come “sento che devo essere su quel treno perché succederà qualcosa che darà un senso alla mia vita” (sic): una noia mortale. Addirittura, per non far addormentare lo spettatore, Eastwood inserisce ogni tanto qualche breve flashforward dell’attentato, a ricordarci che siamo in sala per quello e che, se teniamo duro, prima o poi ce lo mostrerà. Inspiegabile la mancanza, tra i personaggi, dell’attore francese Jean-Hugues Anglade, che si trovava sul treno e rimase ferito nell’attentato. Davvero brutto, forse il punto più basso della carriera del grande Clint, che rovina il suo curriculum e quello del suo fidato direttore della fotografia Tom Stern.

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Past Lives

(Past Lives)

Regia di Celine Song

con Greta Lee (Nora), Teo Yoo (Hae Sung), John Magaro (Arthur), Seung Ah Moon (Nora dodicenne), Seung Min Yim (Hae Sung dodicenne).

PAESE: USA 2023
GENERE: Sentimentale
DURATA: 106′

Compagni di scuola, i dodicenni Na Young e Hae Sung si piacciono. Figlia di un regista e di una pittrice, Na Young si trasferisce in Canada e poi negli Stati Uniti. Dodici anni dopo, Hae Sung contatta Na Young (che ora si fa chiamare Nora) e con lei inizia un rapporto fatto di messaggi videochiamate, che però s’interrompe quando comprendono che nessuno dei due ha la possibilità di raggiungere l’altro. 2024. Passati altri dodici anni, Hae Sung raggiunge Nora a New York, dove intanto lei ha sposato Arthur. In due giorni, cercheranno di capire la natura del loro rapporto così particolare…

Esordio della coreana naturalizzata canadese Song (classe 1988), con una storia basata su spunti autobiografici – la regista ha la stessa età che hanno i personaggi, i suoi genitori sono realmente un regista e una pittrice, e la sua famiglia è migrata in Canada dalla Corea proprio quando lei era dodicenne – che però diventa man mano un delicato racconto sulla complessità dei sentimenti, ancora più complessi se influenzati dagli aspetti culturali che li circondano e li plasmano: la scelta cui sembra essere chiamata Nora non è soltanto tra due uomini, bensì anche (o soprattutto?) tra due diverse culture, quella coreana che appartiene al suo passato e alla sua famiglia di origine e quella occidentale incarnata da Arthur e dal fatto che è in essa che lei ha trovato la propria realizzazione lavorativa e sociale. Senza la presunzione di avere in tasca una verità assoluta, come rivela l’emblematica inquadratura iniziale, un piccolo poema visivo (e sonoro) che racchiude il senso del film e, forse, l’idea di cinema di Song. E se è vero che la prima parte, pur coinvolgente, si basa su meccanismi già visti (compresa la separazione dei giovani protagonisti esplicitata facendogli prendere letteralmente due strade differenti), negli ultimi 30′ vengono fuori una pietas e un’empatia rare per il cinema USA, oltretutto ottenute sfruttando ancora una volta il potere evocativo della regia (memorabili le due carrellate opposte che compongono il finale, a dire tutto ciò che c’è da dire senza bisogno di esplicitarlo a parole). All’ottimo risultato concorrono non poco le naturalissime prove del duo di testa (che diventa un trio con l’altrettanto bravo Magaro), la calda fotografia di Shabier Kirchner (che gira su pellicola 35mm), la discreta, spesso solo sussurrata colonna sonora di Christopher Bear e Daniel Rossen. Due candidature agli Oscar, miglior film e miglior sceneggiatura originale. Un gioiellino.

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La vendetta del mostro

(Revenge of the Creature)

Regia di Jack Arnold

con John Agar (professor Clete Ferguson), Lori Nelson (Helen Dobson), John Bromfield (Joe Hayes), Nestor Paiva (capitano Lucas), Grandon Rhodes (Jackson Foster), Dave Willock (Lou Gibson), Robert Williams (George Johnson), Charles Cane (capo della polizia), Clint Eastwood (assistente di laboratorio).

PAESE: USA 1955
GENERE: Fantascienza
DURATA: 82′

L’uomo pesce del primo film non è morto. Catturato, è imprigionato in un acquario dov’è oggetto di studio da parte degli scienziati e di curiosità da parte dei turisti. Finalmente libero, rapisce la bella di turno ed è inseguito dalla polizia.

Secondo capitolo della saga dell’uomo pesce (the gill-man in lingua originale), girato subito dopo il grande successo del primo, ancora diretto da Arnold e prodotto da William Alland per Universal. Rispetto al capostipite si accentua il discorso «politico» sulla creatura vittima della superbia umana, ma è meno riuscito sia sul versante del ritmo che su quello della suspense. Insomma, di orrorifico e di misterioso è rimasto ben poco. Anche qui non mancano i sottintesi erotici, con la creatura che osserva i due protagonisti amoreggiare per poi rapire la donna e portarla con sè. “La sua stranezza è speculare alla confusa identità della donna, divisa tra la professione e il desiderio di maternità: sono entrambi stranieri in un mondo maschilista” (Morandini). Straordinarie anche questa volta le sequenze subacquee, in cui la tuta del mostro è nuovamente indossata dallo stunt-man Ricou Browning. Esordio di Clint Eastwood, non accreditato, nei panni di un assistente di laboratorio con un topolino in tasca. Scritto da Martin Berkeley. Seguito da Il terrore sul mondo (1956), l’unico non diretto da Arnold e non in 3D.

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Assassinio a Venezia

(A Haunting in Venice)

Regia di Kenneth Branagh

con Kenneth Branagh (Hercule Poirot), Tina Fey (Ariadne Oliver), Kelly Reilly (Rowena Drake), Jamie Dornan (dottor Leslie Ferrier), Jude Hill (Leopold Ferrier), Camille Cottin (Olga Semiroff), Kyle Allen (Maxime Gerard), Riccardo Scamarcio (Vitale Portfoglio), Michelle Yeoh (Joyce Reynolds), Ali Khan (Nicholas Holland), Emma Laird (Desdemona Holland).

PAESE: USA 2023
GENERE: Giallo
DURATA: 103′

1947. Ritiratosi a Venezia dopo la fine della seconda guerra mondiale, Poirot accetta senza troppa convinzione l’invito di una vecchia amica scrittrice, che gli chiede di partecipare a una seduta spiritica, la sera di Halloween, a casa di un ex cantante lirica che ha da poco perso la figlia. Quando la medium preposta all’evocazione muore di morte violenta, Poirot chiude ogni accesso alla magione e cerca il colpevole. Ma alcuni strani fenomeni rendono l’indagine piuttosto difficile, al punto che lo stesso Poirot, ateo e scettico convinto, vede vacillare le proprie convinzioni…

Terzo film diretto e interpretato da Branagh sul celebre investigatore belga creato da Agatha Christie, ancora scritto dal fidato Michael Green che questa volta adatta il romanzo Poirot e la strage degli innocenti (Hallowe’en Party, 1969), l’unico del trittico a non vantare altre trasposizioni per il grande schermo. La formula non cambia (bei dialoghi, ironia, buon ritmo, sagace direzione degli attori), ma stavolta c’è almeno un valore aggiunto, ovvero la suggestiva ambientazione in una Venezia fumosa e misteriosa che cela misteri in ogni anfratto (bella fotografia di Haris Zambarloukos). Una location che permette a Branagh di virare prepotentemente verso l’horror (del resto, per far vacillare Poirot, serve qualcosa di – apparentemente – sovrannaturale) e di giocare con la macchina da presa per creare uno riuscito clima di allucinata follia: e così via di inquadrature con angolazioni assurde, grandangoli spinti, il tutto per traghettare anche lo spettatore dentro l’incubo e instillargli il dubbio sulla natura di ciò che sta osservando, come succedeva in un altro celebre film che contiene la parola «haunting» nel titolo (originale), ovvero Gli invasati (1963) di Robert Wise. Pensare che Branagh l’abbia studiato a memoria prima di girare questo terzo capitolo è decisamente legittimo. Colonna sonora di Hildur Guonadottir, che sostituisce Patrick Doyle (musicista dei primi due e abituale collaboratore del regista). Buon cast, nel quale non sfigura il nostro Scamarcio. Girato tra Venezia e i Pinewood Studios di Londra. Errore nel finale: la barca che porta via le salme reca la scritta «polizia», ma a bordo ci sono dei Carabinieri. Avvincente.

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His House

(His House)

Regia di Remi Weekes

con Sope Dirisu (Bol Majur), Wunmi Mosaku (Rial Majur), Matt Smith (Mark Essworth), Javier Botet (lo stregone).

PAESE: USA, Regno Unito 2020
GENERE: Horror
DURATA: 93′

Dopo aver affrontato un terribile viaggio in mare nel quale hanno perso la loro unica figlia, i coniugi sudanesi Majur arrivano in Inghilterra, dove ottengono un alloggio in un anonimo quartiere periferico. Ben presto, oscure presenze iniziano a manifestarsi nella casa, costringendo la coppia a fare i conti con le ombre del loro doloroso passato…

Esordio di Weekes, anche sceneggiatore da un soggetto di Felicity Evans e Toby Venables. Si tratta probabilmente dell’unico horror della storia con protagonisti due migranti africani. Gli stereotipi del cinema sulle case infestate sono riletti nell’incontro con i temi della migrazione e della discriminazione, con tutte le riflessioni sociali che ne conseguono. Man mano che l’intreccio avanza e i tasselli del puzzle vanno al loro posto, diventa un apologo sulla colpa e su ciò che si è costretti a fare per sopravvivere in un mondo spietato e inumano, tanto in patria quanto nel civile mondo occidentale. E se nella creazione della paura non si distanzia particolarmente dalle logiche odierne del jumpscare, a livello politico ha parecchie cose da dire. A dargli verità sono anche (o soprattutto) le performance dei due attori di testa. Bella fotografia di Jo Willems. Distribuito da Netflix. Molti premi ai British Indipendent Film Wards. Particolare.

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