Il buio nell’anima

(The Brave One)

Regia di Neil Jordan

con Jodie Foster (Erica Bain), Terrence Howard (detective Sean Mercer), Nicky Katt (detective Vitale), Naveen Andrews (David), Mary Steenburgen (Carol), Jane Adams (Nicole), Zoë Kravitz (Chloe), James Biberi (detective Pitney), Brian Delate (detective O’Connor).

PAESE: USA, Australia 2007
GENERE: Thriller
DURATA: 119′

New York. La conduttrice radiofonica e il fidanzato David vengono aggrediti in Central Park da un gruppo di balordi. Lui muore, lei si riprende ma le ferite, soprattutto psicologiche, non si rimarginano. Quasi per caso, s’improvvisa giustiziere e inizia a far fuori i cattivi. Un onesto detective della polizia che seguì il suo caso sospetta di lei…

Scritto da Roderick e Bruce A. Taylor (padre e figlio) con Cynthia Mort, un thriller metropolitano che parte bene, affrontando in maniera (apparentemente) non banale il tema della giustizia privata, ma si incarta su un finale decisamente reazionario, vero e proprio elogio alla legge del taglione che lo trasforma in una variante al femminile di mille altri revenge movie, Il giustiziere della notte su tutti. L’intera trama si plasma su eventi poco credibili (possibile che ovunque vada Erica trovi delinquenti cattivissimi che “meritano” di morire?), la regia di Jordan si autocompiace con inutili inquadrature sghembe o fuori fuoco (che dovrebbero rispecchiare la confusione della protagonista), e troppo presto il film perde la sua ambiguità e si schiera apertamente (e pericolosamente) dalla parte di chi sceglie di farsi giustizia da sè. Rimane un mistero perché la Foster, da sempre personalità liberal dello star system, abbia non solo interpretato, ma anche prodotto un film che passa un messaggio così discutibile. La sua prova è comunque l’unica nota positiva di un film sbagliato. Musiche originali di Dario Marianelli alternate a brani pop abbastanza stucchevoli.

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2002: la seconda odissea

(Silent Running)

Regia di Douglas Trumbull

con Bruce Dern (Freeman Lowell), Cliff Potts (John Keenan), Ron Rifkin (Marty Barker), Jesse Vint (Andy Wolf).

PAESE: USA 1972
GENERE: Fantascienza
DURATA: 89′

Nel futuro, sulla Terra, flora e fauna sono del tutto estinte a causa del progresso industriale e dell’urbanizzazione selvaggia. L’unica vegetazione superstite viaggia nello spazio, in gigantesche serre-cupole collegata a navi spaziali. Quando dal comando arriva l’ordine di distruggere tutto, l’astronauta e botanico Lowell non ci sta.

Esordio registico di Trumbull, già apprezzato autore di effetti visivi (vedere alla voce 2001: odissea nello spazio di Kubrick), con una storia scritta da Deric Washburn, Steven Bochco e (pare) Michael Cimino. Un piccolo, riuscito esempio di fantascienza ecologica che riflette sul mondo sempre più privo di natura che stiamo lasciando ai posteri e non disdegna qualche implicazione religiosa, con Lowell novello Adamo si prende cura di un nuovo creato. Nella parte centrale il ritmo cala vertiginosamente, ma la prima mezz’ora e gli ultimi 20′ sono notevoli. Merito anche (o soprattutto) di Dern, che in scena quasi sempre da solo riesce a tratteggiare in maniera credibile e profondamente umana il tormento di Lowell, in preda ai rimorsi per aver dovuto uccidere i propri compagni pur di fare la cosa giusto. Trumbull racconta con sguardo tenero il suo rapporto con i robottini che gestiscono la nave, gli unici amici che gli sono rimasti e che lui fortemente considera tali, a sottolineare quanto l’uomo rimanga sempre e comunque un animale sociale. I trucchi, supervisionati dal regista, non sono per ovvie ragioni di budget all’altezza di quelli di 2001, eppure anche rivisti oggi non sono niente male. Musiche di Peter Schickele, che con Diane Lampert scrive anche i due brani – Silent Runnig e Rejoice the Sun – cantati da Joan Baez, e fotografia di Charles F. Wheeler. Girato in una portaerei statunitense in disarmo. Ignobile distribuzione italiana che, per sfruttare il successo del film di Kubrick (col quale questo Silent Running non ha nulla in comune, se non la presenza di Trumbull e il fatto di appartenere al genere fantascientifico), non solo modifica l’evocativo titolo originale, bensì addirittura modifica i dialoghi originali inserendo riferimenti ad Hal 9000 e al monolito. Fortunatamente, in occasione di una riedizione home-video del 2002, è stato ridoppiato coi dialoghi corretti. Forse un po’ didattico, ma struggente e poetico.

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Fahrenheit 451

(Fahrenheit 451)

Regia di François Truffaut

con Oskar Werner (Guy Montag), Julie Christie (Linda/Clarisse), Cyril Cusack (il capitano), Anton Diffring (Fabian), Bee Duffel (la donna-libro), Jeremy Spenser (l’uomo con la mela), Anne Bell (Doris), Caroline Hunt (Helen), Gillian Lewis (annunciatrice TV), Anna Ralk (Jackie), Roma Milne (la vicina), Mark Lester (un bambino).

PAESE: Regno Unito 1966
GENERE: Fantascienza
DURATA: 112′

In un futuro non molto lontano, i libri sono considerati illegali e i pompieri sono incaricati di bruciarli. Uno dei pompieri, il mite Montag, si avvicina alla lettura per curiosità e non smette più. Osteggiato dai suoi stessi compagni, si alleerà al gruppo di ribelli degli uomini libro, che imparano i testi a memoria per continuare a trasmetterne il contenuto…

Quinto lungometraggio di Truffaut, il primo a colori e il primo non prodotto in Francia, adattamento del romanzo di Ray Bradbury Gli anni della fenice (1953, titolo originale Fahrenheit 451, ovvero la temperatura di combustione della carta). Un feroce atto d’accusa verso la televisione che addormenta le masse, sempre più disinteressate alla lettura e dunque sempre più stupide, oltre che soggiogabili a qualsiasi genere di potere oppressivo. Dimostrativo, noiosetto, narrativamente sconclusionato, ma pieno di idee e di trovate (memorabile la scena della donna che sceglie di bruciare insieme ai suoi libri), sincero nell’impegno e nel monito a non arrendersi, nemmeno di fronte a società che vietano la conoscenza perché, sostanzialmente, la cultura è sempre una forma di ribellione. Truffaut cita il suo maestro Hitchcock (nella sequenza del sogno, ma anche nell’affidare la colonna sonora a Bernard Herrmann), e gira un film lineare e tutto sommato classico, abbastanza piatto a livello di suspense ma riscattato da un finale sicuramente degno. Dopo Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville di Godard (1965), rappresenta il secondo incontro della novelle vague con la fantascienza distopica, anche se oggettivamente qui, del movimento francese, rimane poco. Ottima Christie in un doppio ruolo. Fotografia del futuro regista Nicolas Roeg. Scritto con Jean Louis Richard.

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The Holdovers – Lezioni di vita

(The Holdovers)

Regia di Alexander Payne

con Paul Giamatti (Paul Hunham), Dominic Sessa (Angus Tully), Da’Vine Joy Randolph (Mary Lamb), Carrie Preston (Lydia Crane), Brady Hepner (Teddy Kountze), Ian Dolley (Alex Ollerman), Jim Kaplan (Ye-Joon Park), Michael Provost (Jason Smith), Andrew Garman (Hardy Woodrip), Naheem Garcia (Danny), Gillian Vigman (Judy Clotfelter), Tate Donovan (Stanley Clotfelter).

PAESE: USA 2023
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 133′

Barton Academy (New England), 1970. Paul Hunham, impopolare professore di lettere classiche mal sopportato da studenti e colleghi, accetta di trascorrere le vacanze di Natale nel collegio con quattro studenti che, per ragioni diverse, sono impossibilitati a raggiungere le rispettive famiglie per le festività. Quando tre di loro riescono a tornare a casa, Paul rimane solo con il ribelle Angus Tully e con la cuoca afroamericana Mary, che ha appena perso il figlio in Vietnam. L’esperienza cambierà tutti e tre.

Da un soggetto di David Hemingson, anche sceneggiatore, una commedia agrodolce nel perfetto stile del regista che ancora una volta parla di solitudine, rimpianti, inappagamento (professionale e privato) che porta a mentire soprattutto a se stessi, potere terapeutico del viaggio, padri assenti o inadempienti, bisogno di conoscere il passato (e la Storia con S maiuscola) per capire davvero il presente. Ma è soprattutto un elogio alla dignità degli ultimi, dei tanti holdovers (letteralmente residui) di questo mondo che, pur per motivi diversi, sono o si sentono ai margini di una società che costringe alla perfezione. L’intreccio non è particolarmente originale e molte strade sono già state battute, ma i personaggi sono scritti così bene, e lo sguardo è così acuto e a tratti struggente (l’incontro con il padre di Angus) da renderlo un’opera superiore alla media, nella quale l’incontro di due solitudini (che poi in realtà sono tre) serve ancora una volta per raccontare il calore dell’incontrarsi, soprattutto se si è accomunati dallo status di perdenti. E alla fine il gesto di Paul per salvare Angus dall’accademia militare (il primo passo per finire ammazzato in Vietnam) è un gesto tanto umano quanto politico, attraverso il quale due sfigati, due holdovers appunto, si prendono la loro rivalsa verso una società che non ha mai voluto loro bene. Regia di alto livello, meravigliosa fotografia anni settanta di Eigil Bryld (che utilizza un desueto aspect ratio di 1,66:1), e una straordinaria alchimia tra il mai troppo celebrato Giamatti, che ritrova Payne quasi vent’anni dopo l’ottimo Sideways – In viaggio con Jack (2004), e l’esordiente Sessa, capace di tratteggiare in maniera credibile i tormenti del suo personaggio. Ben cinque nomination ai premi Oscar ma soltanto una statuetta, meritatissima, a Randolph come miglior attrice non protagonista. Un gioiellino, capace di far ridere (anche molto) come di commuovere.

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American Fiction

(American Fiction)

Regia di Cord Jefferson

con Jeffrey Wright (Thelonious “Monk” Ellison), Erika Alexander (Coraline), Leslie Uggams (Agnes Ellison), Sterling K. Brown (Clifford Ellison), John Ortiz (Arthur), Tracee Ellis Ross (Lisa Ellison), Myra Lucretia Taylor (Lorraine), Issa Rae (Sintara Golden), Raymond Anthony Thomas (Maynard), Adam Brody (Wiley), Keith David (Willy).

PAESE: USA 2023
GENERE: Commedia
DURATA: 117′

Tornato nella natia Boston per un seminario, il professore universitario e scrittore afroamericano Thelonious Ellison perde improvvisamente la sorella e si ritrova a dover badare alla madre, malata di alzheimer. Frustrato dal successo di una scrittrice nera che, a suo giudizio, contribuisce a spargere i più abusati stereotipi sui neri, scrive di getto e per scherzo un romanzo con quello stesso stile. Non solo l’opera, firmata con uno pseudonimo ed intitolata emblematicamente Fuck, diventa un grande successo, ma addirittura si ritrova a doverla giudicare, insieme ad altri scrittori, per un prestigioso concorso letterario, senza poter rivelare che è farina del suo sacco…

Primo lungometraggio di Jefferson, che adatta il romanzo Cancellazione di Percival Everett. Una commedia brillante e malinconica nella quale il regista, afroamericano, riflette su quanto l’arte (letteratura, cinema, teatro) contribuisca ad alimentare i pregiudizi sui neri, soprattutto nei prodotti di (american) fiction e soprattutto in quelli scritti da neri. Che alla fine, magari pur inconsapevolmente, servono esclusivamente a fare sentire assolti i bianchi. Ma è anche un apologo su una società imbruttita che snobba le grandi opere e adora sempre più la monnezza: nell’interpretare il fittizio scrittore di Fuck, Monk esagera sperando che la gente si ribelli e capisca che si tratta di uno scherzo, e invece più le spara grosse e più i pubblico gli va dietro (“più faccio lo scemo e più divento ricco”, dice ad un certo punto al suo agente). Nella seconda parte tira un po’ troppo la corda del pur ottimo spunto di partenza e scivola irrimediabilmente verso la farsa (si pensi al ruolo di Brody), ma rimane un’opera intelligente, diversa dal solito, con ottimi dialoghi e buone trovate anche a livello registico (notevole la sequenza in cui i personaggi inventati da Monk prendono vita nella sua stanza e interagiscono con lui mentre li sta scrivendo). Da vedere in lingua originale per cogliere le sfumature dello slang che utilizza il protagonista quando interpreta la parte dello scrittore di Fuck. Grandissima prova di Wright, nel suo primo ruolo da protagonista. Bella fotografia di Cristina Dunlap, ottime musiche di Laura Karpman. Cinque nomination agli Oscar ma solo una vittoria per la miglior sceneggiatura non originale. In Italia direttamente in streaming su Amazon Prime.

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Anatomia di una caduta

(Anatomie d’une chute)

Regia di Justine Triet

con Sandra Hüller (Sandra), Swann Arlaud (Vincent Renzi), Milo Machado Graner (Daniel), Antoine Reinartz (il pubblico ministero), Samuel Theis (Samuel), Jehnny Beth (Marge Berger), Saadia Bentaïeb (avvocato Nour Boudaoud), Camille Rutherford (Zoe Solidor), Anne Rotger (la presidente della corte), Sophie Fillières (Monica).

PAESE: Francia 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 152′

La scrittrice Sandra vive in un paesino di montagna col marito Samuel e il figlio di dieci anni Daniel, ipovedente in seguito ad un incidente. Quando Samuel viene trovato morto nel cortile della loro casa, caduto dall’ultimo piano, Sandra è sospettata di omicidio. Sarà Daniel, con la sua testimonianza finale, a decretare l’andamento del processo.

Scritto dalla regista con il compagno Arthur Harari, un legal-thriller anomalo che ricostruisce nei particolari una “normale” inchiesta per omicidio, soffermandosi non tanto sulla scoperta della verità quanto sui meccanismi (anche famigliari, come in questo caso) che possono portare ad una verità processuale piuttosto che ad un’altra. Viviamo, di fatto, in un mondo regolato solo ed esclusivamente dalla relatività, perché ogni descrizione della verità è sempre e comunque mediata dal punto di vista (umano, emotivo, politico) di chi la effettua, e dunque ad un certo punto dobbiamo scegliere per quale verità optare. Proprio come fa Daniel, che alla fine sceglie la propria verità, trovando persino prove a suo giudizio incontestabili. O come fa Sandra, normalmente, quando scrive i suoi romanzi. Ma è anche (o soprattutto?) un film sulla difficoltà dei rapporti di coppia, e di quanto sia difficile incasellarli dentro precisi schemi che alcune sovrastrutture richiedono, come quelli della giustizia processuale. Nel lasciare aperte moltissime domande – Sandra è un’assassina? Samuel si è suicidato? Daniel ha davvero udito il padre dire certe cose? – il film sprona al dibattito raccontando l’impossibilità di arrivare ad una verità assoluta.

Triet sceglie uno sguardo il più realistico possibile, rinunciando persino alla musica e optando per riprese dall’aspetto documentaristico; ma sottolinea che nemmeno questa scelta può garantire la scoperta della verità, denunciando di conseguenza anche i limiti del mezzo cinematografico, che a questo punto può soltanto continuare a porre domande. Film estenuante, non sempre facile, ma sicuramente interessante, molto diverso dai gialli coevi. Gigantesca prova della Hüller (se il film riesce a restare ambiguo fino alla fine il merito è soprattutto suo), ma notevole anche quella dell’esordiente Graner. Bella fotografia camaleontica di Simon Beaufils. Il titolo richiama un celebre film di Otto Preminger col quale questo Anatomia di una caduta ha parecchi elementi in comune. Palma d’oro a Cannes. La mancata candidatura agli Oscar come miglior film internazionale è invece diventata in Francia un caso politico, ma la pellicola ha comunque avuto la sua rivalsa portandosi a casa la statuetta per la miglior sceneggiatura originale (a fronte di cinque candidature totali) e facendo parlare di sè anche per la presenza, alla serata di Los Angeles, del cane Messi, interprete del cane-guida Snoop. Un punto d’arrivo niente male per un film interamente prodotto da piccole case indipendenti.

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L’ultima volta che siamo stati bambini

Regia di Claudio Bisio

con Vincenzo Sebastiani (Italo), Carlotta De Leonardis (Vanda), Alessio Di Domenticantonio (Cosimo), Lorenzo McGovern Zaini (Riccardo), Federico Cesari (Vittorio), Marianna Fontana (suor Agnese), Claudio Bisio (Anacleto Barocci), Antonello Fassari (nonno Cosimo), Fabian Grutt (sergente), Giancarlo Martini (oste), Nikolai Selikovsky (tenente tedesco).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 107′

1943. Quando in seguito al rastrellamento del ghetto di Roma l’ebreo Riccardo è mandato con la sua famiglia in Germania, i suoi tre amici Italo, figlio di un federale fascista, Cosimo, che vive col nonno da quando il padre è stato mandato al confino, e Vanda, un’orfana che vive in convento, partono a piedi, seguendo le rotaie, per andare a salvarlo. Il fratello di Italo e la suora responsabile di Vanda si mettono sulle loro tracce per riportarli a casa.

Esordio registico di Bisio, che sceglie di adattare (con Fabio Bonifacci) l’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei (2018). Le intenzioni sono buone e senza dubbio sincere, i bambini sono bravi e il messaggio condivisibile e ben esposto, ma il film è davvero troppo didascalico, poco credibile negli sviluppi, disarmonico nell’optare per uno stile leggero, a tratti farsesco, per poi finire inaspettatamente in tragedia distanziandosi dal romanzo e rifacendosi in maniera rischiosa a Il bambino con il pigiama a righe. Qualcuno ha scomodato La vita è bella o addirittura La grande guerrama in entrambi i casi l’equilibrio tra riso e pianti era molto più riuscito, anche grazie a personaggi che partivano sì dalla macchietta ma finivano per essere più veri che mai. Qui invece le caratterizzazioni sono piuttosto superficiali, le battute fiacche, e lo spunto favolistico alla Stand by me non è sostenuto da una forma adeguata. Un peccato, perché i nomi coinvolti facevano sperare in qualcosa di diverso. Pubblico e critica divisi a metà.

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Songbird

(Songbird)

Regia di Adam Mason

con KJ Apa (Nico), Sofia Carson (Sara), Craig Robinson (Lester), Bradley Whitford (Mr. Griffin), Demi Moore (Piper Griffin), Peter Stormare (Emmett Harland), Alexandra Daddario (May), Paul Walter Hauser (Michael Dozer), Elpidia Carrillo (Nonna Lita), Lia McHugh (Emma Griffin).

PAESE: USA 2020
GENERE: Fantascienza
DURATA: 85′

2024. Quattro anni dopo i primi casi, il Covid è mutato diventando ancora più pericoloso. I contagiati che non ne muoiono sono rinchiusi in speciali dipartimenti controllati dall’esercito, dai quali è impossibile avere contatti con l’esterno. Il lockdown è ormai globale, e chi ancora non si è ammalato non può per nessuna ragione abbandonare la propria abitazione. Gli unici che possono girare più o meno liberamente sono gli immuni, dotati di un braccialetto-identificativo giallo. Nico, un immune che di mestiere fa il corriere in bicicletta, cerca disperatamente di salvare la fidanzata Sara, che sta per essere prelevata dall’esercito dopo il decesso della nonna. La sua strada incontrerà quindi quella dei coniugi Griffin, ricchi imprenditori che illegalmente vendono braccialetti gialli a chi vuole passare per immune…

Girato nella Los Angeles spettrale e semi-deserta per il lockdown del 2020, con una troupe ridotta all’osso che si sottoponeva giornalmente a rigidi controlli di sicurezza, è uno dei pochi film girati durante la pandemia e in assoluto il primo film a servirsi della vicenda per creare una distopia. L’operazione è stata accusata di lucrare su una tragedia mondiale mentre questa era ancora in atto, ma l’aspetto peggiore del film è probabilmente quello di accodarsi alle tante teorie complottiste che parlavano di dittatura sanitaria e si scagliavano contro soluzioni come il green pass paragonando il trattamento riservato ai non vaccinati a quello che i nazisti riservavano agli ebrei. Nell’immaginare la trasformazione dello stato in uno stato di polizia con la scusa della sicurezza e della salute pubblica, Mason e il suo sceneggiatore Simon Boyes non solo non ci prendono minimamente (siamo nel 2024, e niente di tutto ciò è accaduto), ma fanno anche una cattiva azione ai danni di quei governi che, nel bene e nel male, stavano ancora cercando di arginare il problema e salvare più vite possibile. Invece nel loro film i malati sono trascinati a forza nei lager dai quali non usciranno mai più, il braccialetto giallo/green pass è uno specchietto per le allodole sul quale può tranquillamente lucrare la malavita, e i governi non sono più comandati dai politici bensì dal gotha dell’OMS. Ma indipendentemente di quanto sia deprecabile a livello ideologico, il film è sbagliato anche a livello strutturale, banalissimo nel tratteggiare la love story tra i protagonisti, incapace di valorizzare le ambientazioni come di creare la suspense, affidato a personaggi mai credibili interpretati da attori svogliati (la Moore) o sempre uguali a se stessi (Stormare). Prodotto da Michael Bay, è un film di cui potevamo tranquillamente fare a meno.

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I viaggiatori della sera

Regia di Ugo Tognazzi

con Ugo Tognazzi (Orso Banti), Ornella Vanoni (Nicki Banti), Corinne Cléry (Ortensia), Roberta Paladini (Anna Maria Banti), Pietro Brambilla (Francesco Banti), José Luis López Vázquez (Simoncini), William Berger (Cochi Fontana), Manuel de Blas (Bertani), Deddi Savagnone (Mila Patrini), Leo Benvenuti (Sandro Zafferi), Enrico Tricarico (il direttore), David Fernández Álvaro (Antonluca), Riccardo Tognazzi (il giardiniere).

PAESE: Italia, Spagna 1979
GENERE: Fantascienza
DURATA: 104′

In un futuro non lontano, per far fronte all’eccessiva sovrappopolazione, le persone che raggiungono 49 anni d’età sono costrette ad abbandonare qualsiasi attività e a trasferirsi in un residence sul mare dal quale non possono più uscire. I coniugi Banti raggiungono loro malgrado la struttura che gli è stata assegnata,  scoprendo oltretutto che ogni settimana un gruppo di ospiti, selezionati attraverso un gioco stile mercante in fiera, vengono soppressi con la scusa di partecipare ad una crociera. Ma un gruppo di “villeggianti”, sostenuti da alcuni membri dello staff, progettano la fuga…

Quinta (ed ultima) regia di Tognazzi, che adatta con Sandro Parenzo un romanzo omonimo di Umberto Simonetta. Un film anomalo, lontano dai canoni del cinema italiano e da quelli dello stesso Tognazzi, che alle soglie dei sessant’anni riflette sulla vecchiaia e sulla presunta inutilità dei vecchi, spesso dimenticati dai giovani e dalla politica che li ritiene oramai inutili. Il risultato è un’opera cattiva (incattivita?), in cui il regista/attore immagina un mondo distopico in cui l’unica libertà rimasta all’uomo è quella del turpiloquio, in controtendenza al politicamente corretto imperante, e l’unico sfogo possibile resta quello sessuale, ovvero imperniato sui suoi peggiori istinti animaleschi. Anche se, in fondo, si tratta di un film sull’amore: senza di esso, non ha più senso nemmeno la rivoluzione. Indeciso se scivolare verso il grottesco o se attenersi ad un certo realismo, non privo di passi deliranti (la tappa presso l’oasi dei due gemelli), penalizzato da un finale troppo programmatico (quello sullo zoo galleggiante), nel quale l’impellenza del messaggio pare “schiacciare” definitivamente la coerenze filmica, rimane comunque un prodotto interessante e per certi versi anticipatore, intelligente, pieno di trovate e pezzi struggenti (l’addio di Nicki). Nonostante questo, critica e pubblico lo bocciarono senza riserve, forse perché davvero troppo audace per le rotte cinematografiche (soprattutto italiane) dell’epoca. Una stroncatura della quale Tognazzi soffrì a tal punto che non si sarebbe mai più cimentato nella regia. Ma anche la censura ci andò pesante: vietò il film ai 18 anni, poi scesi a 14 dopo il ricorso (un interessante documento sull’argomento è l’intervista che Baudo fece a Tognazzi a Domenica In poco dopo l’uscita della pellicola). Grande prova della Vanoni. Girato in Spagna, nei pressi delle Canarie, sfruttando alcuni paesaggi brulli e dal vago sapore lunare che accentuano la dimensione distopica della vicenda. Fotografia di Ennio Guarnieri. Cameo di Ricky Tognazzi, ancora accreditato come Riccardo, e unico ruolo d’attore dello sceneggiatore Leo Benvenuti. Uno di quei rari casi di film non particolarmente riuscito che però vale la pena vedere.

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Brainstorm – Generazione elettronica

(Brainstorm)

Regia di Douglas Trumbull

con Christopher Walken (Michael Brace), Natalie Wood (Karen Brace), Louise Fletcher (Lillian Reynolds), Cliff Robertson (Alex Terson), Donald Hotton (Landan Marks), Alan Fudge (Robert Jenkins), Jordan Christopher (Gordy), Joe Dorsey (Hal Abramson), Jason Lively (Chris Brace).

PAESE: USA 1983
GENERE: Fantascienza
DURATA: 106′

Un team di scienziati costruisce un marchingegno che può registrare le esperienze sensoriali per poi farle rivivere a chiunque lo utilizzi. Quando l’invenzione finisce nelle mani dei militari, che vogliono utilizzarla per bruciare il cervello al nemico, gli scienziati si ribellano.

Secondo film diretto da uno degli addetti agli effetti speciali più apprezzato della storia del cinema (lavorò, tra gli altri, a 2001: odissea dello spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Blade Runner), che mette in immagini una sceneggiatura di Philip Frank Messina e Robert Stitzel ispirata ad un soggetto di Bruce Joel Rubin. Se come thriller non lo si può ritenere del tutto riuscito, principalmente a causa di una suspense che funziona in maniera altalenante, come prodotto fantascientifico, ma anche come apologo sui rischi della scienza, è invece denso di idee e trovate, alcune delle quali persino anticipatrici tanto rispetto al genere quanto rispetto alla realtà. Ma è interessante anche a livello visivo, a partire dalla scelta di utilizzare due diversi aspect ratio per distinguere le immagini che appartengono alla realtà, filmate in 1,85:1 e con lenti a focale lunga, e quelle che invece appartengono alla dimensione della registrazione tecnologica e sensoriale, filmate in formato panoramico e col ricorso a grandangoli talvolta estremi. Un’idea che penalizza la visione televisiva (le immagini in 1,85:1 diventano troppo piccole rispetto allo spazio dello schermo), ma che valorizza i contenuti del film e sottolinea il concetto che realtà e registrazione di essa possono essere molto diverse. Guardate con attenzione le visioni iperspaziali che Michael ha nel finale: vi ricordano qualche altro film? L’idea di partenza è la stessa identica di un film che uscirà dodici anni dopo e ben più famoso, Strange Days di Kathryn Bigelow. Si tratta dell’ultimo film di Natalie Wood (1938-1981), che morì terminate le riprese ma prima che uscisse in sala. Musiche di James Horner.

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