Blade Runner

(Blade Runner)

Regia di Ridley Scott

con Harrison Ford (Rick Deckard), Rutger Hauer (Roy Batty), Sean Young (Rachael), Daryl Hannah (Pris), Brion James (Leon), Joanna Cassidy (Zhora), Edward James Olmos (Gaff), M. Emmet Walsh (Capitano Bryant), Joe Turkel (Dottor Eldon Tyrrell), William Sanderson (J. F. Sebastian), Morgan Paul (Holden), James Hong (Hannibal Chew).

PAESE: USA 1982
GENERE: Fantascienza
DURATA: 118′

Nella piovosa e multiculturale Los Angeles del 2019, il poliziotto Rick Deckard è incaricato di “ritirare” (eliminare) quattro pericolosi replicanti, surrogati degli uomini creati in laboratorio e trattati come schiavi lavoratori.

Scritto da Hampton Fancher e David (Webb) Peoples, prendendo liberamente spunto dal romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) di Philip K. Dick, il terzo film di Ridley Scott resta tutt’oggi la sua opera migliore, nonché uno dei film di fantascienza più interessanti e significativi mai realizzati. Tenendo presente Metropolis di Fritz Lang (1927), immagina una Los Angeles del futuro in cui i ricchi vivono in alti palazzi che puntano al cielo, mentre i poveri – di qualsiasi razza, specialmente asiatici – condividono il marciume che popola le strade. E non solo: i primi hanno creato dei surrogati identici in tutto e per tutto agli umani – ma instancabili e con una “data di scadenza” – per poterli utilizzare come lavoratori nelle colonie “extramondo”.

La genialità dell’intreccio e l’originalità dell’ambientazione danno a Scott la possibilità di concepire un’opera leggibile su una serie infinita di livelli: religioso, perché Roy Batty rappresenta l’uomo che vuole incontrare il suo creatore per porgli la domanda esistenziale per eccellenza, ovvero perché moriamo; teologico, perché Batty uccide un Dio che non è riuscito a farlo “perfetto”; sociopolitico, in quanto quella dei replicanti sembra una rivoluzione dei deboli – schiavi, creati per lavorare e poi morire – contri i potenti che li hanno ingannati; filosofico, perché il porre domande senza risposta e il voler “conoscere” la verità su di essi è parte integrante della vita umana (e il replicante Pris cita il cogito ergo sum di Cartesio per ribadire il proprio esistere); esistenziale, perché tutti i personaggi del film, replicanti o meno, sono accomunati da una “data di scadenza”, breve per i primi e un po’ più lunga ed inaspettata per i secondi: la loro vita è pur sempre effimera e sfuggevole. La metafora sulla società presente è più attuale che mai: quando Gaff, riferendosi al fatto che la donna amata da Deckard, Rachael, è un replicante, dice “peccato che lei non vivrà, sempre che questo sia vivere” svela il lato pessimista della pellicola, intinta in una sorta di umanesimo moderno che però è destinato a soffocare sotto il peso asfissiante del bisogno tecnologico.

Scott immagina un futuro in cui la tecnologia, e l’architettura con essa, sono ad un passo dal disfacimento, provocato guarda caso dall’autodistruzione operata dall’uomo stesso: ciò che creiamo, siano edifici o replicanti, è destinato a finire, proprio perché noi stessi, i loro creatori, siamo destinati a morire e non abbiamo ancora trovato un modo per impedirlo. Il regista impila una dietro l’altra immagini suggestive e bellissime, più vicine a spazi mentali che a luoghi reali e destinate a influenzare tutto il cinema venuto dopo. Costruisce il personaggio di Deckard come un moderno Marlowe, sempre in giro a piedi in una città perennemente notturna e bagnata dalla pioggia, un uomo incapace di relazionarsi e cocciuto all’inverosimile: non per nulla, il registro utilizzato per la narrazione, al di là dell’ambientazione fantascientifica, è quello del genere noir. Ma il personaggio più interessante resta certamente Roy Batty, superuomo aggressivo e malinconico che acquista una statura tragica nella sua lotta per la sopravvivenza: il suo creatore gli ha dato solo quattro anni perché, dopo quel tempo, i replicanti iniziano a provare emozioni umane, divenendo così troppo pericolosi. Il replicante dovrebbe essere un “capolavoro” che perde i difetti degli uomini e ne guadagna i pregi: ma la sua concezione “umana” lo spinge a scoprire i sentimenti, ereditando così il più grande difetto/ pregio degli esseri umani. Scott torna infatti sul tema dell’occhio, oggetto di sguardo e strumento di conoscenza, per ampliare la sua intelligente ed universale metafora.

Una serie di scelte fortemente anti- hollywoodiane premiarono la pellicola già alla sua uscita: tempi distesi nonostante il tono da action movie, passi realistici (le uccisioni dei replicanti) alternati ad altri decisamente onirici (Roy, prima di morire, fa volare una colomba, simbolo della vita, che si dirige verso un cielo azzurro e sereno nonostante sia notte e piova), pochi passi parlati e un ottimo uso del primo piano come mezzo per comprendere l’andamento della trama attraverso i sentimenti dei personaggi; la necessità di non spiegare tutto per forza e lasciare quindi che si tratteggi una visione personale, soggettiva, ambivalente ma non ambigua. Tutti i reparti tecnici risultano tutt’oggi ineccepibili: dagli sbalorditivi effetti speciali di Douglas Trumbull alle magnifiche scenografie – che attingono dai fumetti di Moebius, dall’arte di Edward Hopper, dalla Honk Kong contemporanea – dell’artista concettuale Syd Mead, dall’eccellente fotografia notturna di Jordan Cronenweth alle emozionanti musiche del compositore greco Vangelis.

Ma Blade Runner, purtroppo o per fortuna, non è soltanto “un” film: nel 1982 uscì infatti nei cinema una versione che, a posteriori, Scott presentò come non propria. Questo montaggio, denominato International Cut, accentua i toni noir della pellicola – la voce fuori campo di Deckard contrappunta le sue azioni -, elimina il famoso sogno dell’unicorno e, di conseguenza, cancella ogni congettura sul fatto che anche Deckard possa essere un replicante. Il finale vede Deckard e Rachael fuggire da Los Angeles per approdare a campagne isolate ed immerse nel verde. Nel 1992, a dieci anni dall’uscita nelle sale, Scott ripropone il film (director’s cut) apportandovi poche ma significative differenze: al di là della digitalizzazione degli effetti speciali, il regista rimonta alcune sequenze, toglie la voce over di Harrison Ford e inserisce la sequenza in cui il protagonista sogna un unicorno. Una sequenza che stravolge e amplia il significato della pellicola: se infatti nella versione originale l’unicorno di carta lasciato nell’appartamento di Deckard dal blade runner Gaff ha un significato di avvertimento nei confronti di Rachael e Rick (“sono stato qui, ma non l’ho uccisa”), nel director’s cut assume un valore profondamente diverso. Alla luce del sogno di Deckard, infatti, il gesto di Gaff suona come una rivelazione: l’origami rappresenta un unicorno, come se l’uomo conoscesse i sogni del protagonista.

Deckard è dunque un replicante? Gaff conosce i suoi sogni perché ne ha letto le specifiche “tecniche”? è dunque Gaff, non Deckard, il vero blade runner (ma troppo malconcio per affrontare Batty)? In effetti, non vediamo mai il cadavere del terzo replicante maschio nominato all’inizio dall’ispettore Bryant: potrebbe trattarsi proprio di Deckard, riprogrammato per fare il lavoro sporco al posto di Gaff ma ineluttabilmente condannato a “spegnersi”. Scott non risponde a queste questioni, almeno non esplicitamente. Ma è pur vero che, riguardando il film alla luce dell’epilogo, la suggestiva ipotesi dell’artificialità di Deckard è difficile da soffocare: Batty gli dice “ma non eri quello buono?”, mentre Gaff afferma “peccato che LEI non vivrà”, una frase che può riferirsi sia a Rachael che a lui stesso. La soluzione è dunque suggerita, ma non data: la soggettività della comprensione del film rimane e lo carica di un’aura affascinante ed ambivalente.

In merito a quale sia la versione migliore – quella “senza questioni lasciate aperte” del 1982 o quella “colma di domande non risposte” del 1992 – critica e pubblico dibattono da ormai trent’anni. Secondo noi, quella del 1992, se non migliore, è quantomeno più interessante, anche perché rappresenta ciò che l’autore voleva esprimere sin dal principio, ben prima che gli studios imponessero un finale decisamente lieto. E se da un lato l’eliminazione della voce fuori campo di Ford fa perdere al film quell’alone post- romantico tipico del noir, è pur vero che dall’altro rende la storia più ambigua, meno “sottolineata”, e che affida il coinvolgimento dello spettatore ad un arte più “pura”, fatta di visi ambivalenti ed espressioni non codificabili più che di parole o discorsi.  Senza dimenticare che la nuova versione, fondamentalmente, è più interessante perché non da risposte e lascia tutto alla pura interpretazione. Le sequenze di canto alto non sono poche, e tutto (o quasi) fa di Blade Runner un film perfetto.

Molti criticarono l’interpretazione di Ford, ritenuta non all’altezza del personaggio. L’attore certo non da il meglio di sé, ma è anche vero che la sua interpretazione legnosa e talvolta “imbambolata” innesca almeno due riflessioni che, invece di screditare il film, lo arricchiscono: la poca espressività del protagonista rende molto più interessante il suo nemico, Roy Batty, l’unico che davvero possiede consapevolezza di sé e degli altri e che quindi aspira ad una statura mitica (grandissimo Rutger Hauer, che improvvisò da zero il notissimo monologo “io ne ho viste cose che voi umani…”); i movimenti innaturali di Ford sottolineano invece l’ambiguità del suo essere – umano o replicante? – sottolineando allo stesso tempo la scarsissima differenza “filosofica” ed esistenziale tra gli uni e gli altri.

Altro difetto rimproverato al film, specialmente dagli anni novanta in poi, è quello di aver immaginato un futuro che, almeno negli abiti e negli sviluppi tecnologici, è troppo debitore dell’estetica kitsch degli anni ’80 e ne resta dunque prigioniero. In realtà il percorso di Scott non è dovuto (in quanto il suo film “appartiene” agli anni ottanta), quanto concettuale: il regista si limitò ad immaginare, con occhio “artisticamente” pessimista (il futuro sarà peggiore, non migliore), che la “terribile” estetica degli anni ottanta sarebbe divenuta la cifra stilistica tipica delle metropoli, in quanto già oggi fanno propri i dettami dell’accumulo, del cattivo gusto, della spersonalizzazione. A voler essere pignoli, comunque, un piccolo difetto ce l’ha anche Blade Runner: il combattimento finale tra Deckard e Batty appare oggi un po’ troppo lungo.

Resta comunque uno dei migliori film fantascientifici della storia del cinema, secondo soltanto a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. Da vedere e rivedere, anche per chi non è fan della sci- fi. Grandissimo succeso di pubblico e critica, ma “delittuosamente” nemmeno un Oscar.

Uno dei capolavori della fabbrica dei sogni americana, nonché uno dei più bei film di sempre.

 

 

 

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7 risposte a Blade Runner

  1. Sekhemty scrive:

    Uno dei più bei film di sempre, fantascienza fatta come si deve.
    Le suggestioni sia visive che musicali lasciate da questa pellicola sono uniche.

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  7. Francesco CH scrive:

    Meglio la prima versione, cioè quella del 1982. E lo dice uno che ha visto tutte le versioni del film.

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