Barry Lyndon

(Barry Lyndon)

Regia di Stanley Kubrick

con Ryan O’Neal (Redmond Barry Lyndon), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (lo Chevalier de Balibari), Hardy Krüger (capitano Potzdorf), Steven Berkoff (Lord Ludd), Gay Hamilton (Nora Brady), Marie Kean (madre di Barry), Diana Körner (Lischen), Murray Melvin (reverendo Samuel Runt), Frank Middlemass (sir Charles Reginald Lyndon), Leonard Rossiter (capitano John Quinn).

PAESE: Gran Bretagna 1975
GENERE: Drammatico
DURATA: 184’

Ascesa e caduta del giovane e modesto irlandese Redmond Barry attraverso la società del XVIII secolo: sfida a duello un soldato per amore della cugina, va in guerra contro i francesi, si sposa con un nobile che gli da un figlio. Ma alla fine è destinato a cadere nuovamente nella miseria.

Scritto dal regista partendo da un romanzo di William Makepeace Thackeray, il decimo film di Kubrick, diviso in due capitoli, è un film storico in costume tra i più importanti della storia del genere. Si tratta, ancora una volta, della storia di un individuo a contatto con la società. Un ritratto della mediocrità umana impregnato in un radicale pessimismo (o sarebbe più corretto dire verismo?) che arriva alla conclusione che l’uomo non può progredire, almeno non in una società come questa. Come nel successivo Eyes Wide Shut, Kubrick si scaglia con piglio antropologico contro una civiltà che, ieri come oggi, punta al classismo e divide il mondo tra chi ostenta e possiede il potere e chi lo subisce dall’esterno. Rispetto al romanzo, Kubrick sceglie un narratore in terza persona, ed è proprio questo distacco a rendere il film più affascinante, credibile, utilizzabile come rigorosa e realistica fonte storica: lo sguardo del regista non è mai partecipe (a parte, forse, nel rapporto di Barry col figlio), anzi, talvolta piega verso l’indifferenza. La frase finale, che decreta la morte come unico metro di uguaglianza tra gli uomini, svela uno sguardo da demiurgo imperscrutabile che si limita a riprendere gli avvenimenti, senza commentarli perché si commentano da soli. Kubrick non giudica, ma questa è già di per se una scelta di giudizio: come dire che, negli “affari” dell’uomo, c’è poco da commentare. E questa, se non altro, è una prova di umiltà, che osserva “dall’alto” ma concepisce “dal basso”, in quanto anche il regista, pur demiurgo, è comunque uomo. Che sa, comunque, osservare sé stesso e i suoi simili con una bella dose di intelligente ironia.

Ma più ancora che per la feroce critica antiborghese, per i simbolismi esistenziali, per il quadro di una società squallida ma perbenista, il film viene ancora oggi ricordato per la sua forma. Kubrick volle girare il film senza l’ausilio di luci artificiali, e il superbo direttore della fotografia John Alcott dovette adattare la macchina da presa per montarvi alcune lenti speciali della Zeiss – progettate per i satelliti della Nasa – che potessero impressionare la pellicola contando sulla poca illuminazione di candele, lumi ad olio, falò, e che garantirono al film un aspetto granuloso dell’immagine che richiama le foto d’epoca o i dipinti sui libri di storia. Già soltanto per questo motivo Barry Lyndon è un film unico: nessuno aveva mai osato tanto, e non si erano mai viste su pellicola immagini così realistiche, così vicine alla percezione della luce dell’occhio umano. Il film si fa notare per una bellezza plastico/ figurativa senza precedenti, per come ricrea un album di immagini magnifiche che si ispirano ai quadri di Hayez, Hogarth, Reynolds, Chardin, Watteau, Zoffany, rievocati dal prezioso lavoro scenografico del fido Ken Adam (che aveva già inventato, ad esempio, la sala ovale de Il dottor Stranamore). Kubrick si fa notare anche per il sapiente uso poetico dello zoom (favolosi quelli, lentissimi, all’indietro: dal particolare al panorama) e per come riesce a costruire scenari ricchissimi e particolareggiati che rappresentano la vetta del suo barocchismo.

Qualcuno lo accusò di aver girato un film “formalista”: in realtà tutto lo sforzo produttivo atto alla creazioni di strepitose immagini servì a Kubrick per evocare il contrasto tra la poesia della natura e lo squallore dell’uomo che l’ha domata, canalizzata, ricostruita a sua immagine e somiglianza (i giardini dei palazzi sembrano appendici dei palazzi stessi). Un po’ lungo (a tal punto che, tra i due capitoli Kubrick inserì l’intervallo come in 2001), ma il suo status di film “sensoriale” è indiscutibile. Il regista lo avrebbe voluto molto meno parlato, e forse questo ne avrebbe incrementato il già indiscusso valore. Musiche – “riorchestrate” da Leonard Rosenman – di Händel, Bach, Mozart, Vivaldi e (anacronisticamente) Schubert. Quattro Oscar: fotografia a John Alcott, scenografia a Ken Adam, Roy Walker e Vernon Dixon, costumi a Ulla-Britt Soderlund e Milena Canonero, adattamento musicale a Rosenman. Fiasco al botteghino, ma la critica l’ha apprezzato un po’ ovunque. Da non perdere.

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Una risposta a Barry Lyndon

  1. Nilo Maria Smiussi scrive:

    Già…. fiasco al botteghino..
    Che un oggettivo capolavoro del genere non abbia incassato è la cifra della massa di buoi diretti dall’alto che vanno e che sono da sempre andati nei cinema.
    Romolo Valli straordinaria voce narrante.

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